Walter Veltroni: «Quando Roma si ritrovò unita per Alberto Sordi»

Walter Veltroni: «Quando Roma si ritrovò unita solo per Alberto Sordi»
di Walter Veltroni
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Sabato 13 Giugno 2020, 08:51 - Ultimo aggiornamento: 09:47
Quei giorni - ricorda Walter Veltroni - sono scritti nella memoria di questa città. Li ricordo, quei visi. I gesti di chi si faceva il segno della croce, di chi piangeva, di chi sfilava in silenzio. Per giorni e per notti, tutte intere, Roma disse così grazie a uno dei suoi figli più amati. Alberto Sordi è stato Roma. E’ stato il carattere, il modo di parlare, di pensare di questa città meravigliosa. Sordi è figlio di Pasquino, di Belli, di Pascarella, di Trilussa, di Petrolini.

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Ed è padre di Proietti, Verdone… Sordi ha fatto rivivere una lingua, il romanesco, che con lui è diventata nazionale. Le sillabe ridotte - pensate a quanto tempo nella vita risparmiano i romani - le domande ripetute- Che fai? E che faccio?- le intonazioni beffarde o disperate. E Sordi aggiungeva una vena di follia iconoclasta, di sovvertimento costante delle regole della razionalità, del buon senso. Tutto, in lui, era imprevedibile. Era energia pura, dileggio, scherzo. Era generoso e cinico, maramaldo e furbacchione, pieno di pietà e di capacità di arrangiarsi.
Sordi era figlio del popolo, aveva faticato per farcela. E si vedeva. Tutta la sua vita è inscritta nelle vie di Roma, nei suoi teatri, nelle sue piazze. E in quella casa all’inizio dell’Appia che la Fondazione Sordi si propone di far diventare un museo nel quale conservare i suoi oggetti, il suo magnifico archivio, tutto ciò che resta di una vita che sembra mille vite. Ogni romano, passando di lì, sa che quella “ è la casa di Sordi”. E allora quella bellezza, con il teatro e la barberia, vogliamo sia visitabile da ogni cittadino. 
Sordi ci manca, a noi romani. Lo rivediamo ovunque, in città. A Villa Borghese vestito da “compagnuccio della parrocchietta”, a Portico d’Ottavia con la maglietta infilata nei jeans e il dito a mo’ di pistola scarica in “ Un americano a Roma”, all’edicola di Via Veneto, angolo via Ludovisi, mentre parla con Vittorio de Sica, a Piazzale Prenestino mentre soccorre il suo povero figlio ucciso durante la rapina di “Un borghese piccolo piccolo”. O alla Galleria Colonna, centro dell’avanspettacolo romano in “ Polvere di stelle”. Quando Alberto morì fu lì che pensammo di intitolargli un luogo di Roma. A ricordare la sua fatica, oltre al suo talento.
Alberto è stato Roma. Venne a cena da me, la sera prima dell’undici settembre. Era con Ettore Scola, suo e mio amico di sempre. Non aveva più l’energia di un tempo, ma gli occhi erano sempre gli stessi e anche lo sguardo sulle cose, disincantato, divertito, ma sempre più nostalgico di un tempo che gli stava sfuggendo. 
A Piazza San Giovanni, per i suoi funerali, Roma si ritrovò. Tutta intera. Quel giorno, con la morte nel cuore ma fiero di averlo avuto come amico lo salutai così: : Roma, hai detto una volta, è una mamma che apre le braccia, accoglie, non respinge. Una sera ti raccontai che i bambini con la pelle nera che incontro nelle scuole parlano come te. E tu mi rispondesti, questa è Roma.
E come è bella, Roma, Alberto. Tu l’hai descritta così: «Io continuo ad amarla, questa città. È qui che ho la mia casa, gli amici. È a Roma che ho legato il mio lavoro, i miei personaggi. Se potessi, vorrei prendere un mezzo, andare al mercato per risentire l’aria di casa mia, e in quelle serate calde, uniche al mondo con quei tramonti accesi sui monumenti, sulle case e sulle fontane di questa mia città, me ne starei seduto a mangiare una fetta di cocomero e, progettando il domani, tornerei ai vecchi tempi, quando sentivo nell’aria che arrivava la primavera, profumi di giardini in fiore e l’odore intenso delle fragole sui tavoli all’aperto delle trattorie. Siamo storia e futuro, noi romani. Siamo capitale e comunità, siamo borgo e mondo».
Alberto Sordi è stato Roma. E Roma non lo dimentica.
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