Enrico Vanzina: «Io e Carlo in braccio ad Alberto Sordi, uno di casa»

Enrico Vanzina: «Io e Carlo in braccio ad Alberto Sordi, uno di casa»
di Enrico Vanzina
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Sabato 13 Giugno 2020, 01:53 - Ultimo aggiornamento: 14 Giugno, 10:58
Per mio padre Steno, per mia madre Maria Teresa, per mio fratello Carlo e per me - racconta Enrico VanzinaAlberto Sordi è stato, e continua ad essere, e sarà per sempre, “uno di famiglia”. Nella nostra storia, che inizia con Un giorno in pretura e Un americano a Roma, due film memorabili che Alberto ha girato con Steno, c’è amicizia, complicità, ammirazione, lavoro, ma soprattutto quelle continue frequentazioni affettuose che hanno fatto da sfondo a quasi 50 anni trascorsi insieme.

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Ho tantissimi ricordi di Alberto. Tutti divertenti, curiosi. Perché anche fuori dal set, quando Alberto tornava ad essere sé stesso, sempre elegantissimo, educatissimo, restava l’Alberto Sordi pungente e dispettoso che tutti abbiamo amato sullo schermo. 

«TU SEI COCHI O RENATO?»
Ricordo che una sera mia madre lo invitò a cena. Aveva invitato anche Renato Pozzetto che in quegli anni era diventato l’attore più popolare d’Italia. I due non si conoscevano. E quando mamma li presentò, Pozzetto tese la mano a Sordi con emozione e rispetto: Buonasera...». Alberto fece la sua classica risata, gli diede una carezza e disse: «Ma tu chi sei? Sei Cochi o sei Renato?...». Era il suo modo per stabilire che il generale della commedia all’italiana era sempre e comunque lui. Anni dopo, mio fratello Carlo ed io lo andammo a trovare.

Parlando di cinema gli domandammo cosa pensava di Roberto Benigni. Sordi rifece la sua risatina e rispose: «E’ un matto… Sembra uno di quei pupazzi a molla che escono dalla scatola...» E ci mimò Jack in The Box che salta fuori dondolante a braccia aperte. Lo aveva fotografato. Perché la dote straordinaria di Alberto era il suo sguardo sul mondo, sugli altri, sui loro vizi , sulle buffonerie della vita. Ci ha guardati e ci ha interpretati. E’ stato il nostro papà, il nostro vigile, il nostro medico. E’ stato fifone, coraggioso, vigliacco, opportunista, idealista, cattivo, generoso. E’ stato l’icona di celluloide che meglio ha rappresentato i comportamenti degli italiani. Quello, però, che è assolutamente stupefacente è che Alberto ha imitato alla perfezione gli italiani ma poi, per un misterioso meccanismo d’identificazione al contrario, sono stati gli italiani a imitare lui. Lui era noi e noi siamo tutti un po’ lui.

Alberto era sempre sé stesso, sullo schermo e nella vita privata. Quando mio fratello Carlo faceva il suo aiuto nel film “Polvere di Stelle”, una sera, a Bari, tornando dopocena in albergo insieme a Monica Vitti che stava con il suo compagno di allora, Carlo di Palma, separandosi nel corridoio Alberto gli disse: «Adesso loro vanno in camera a fare l’amore... Invece noi due ce ne andiamo nel nostro lettuccio da soli... Ci mettiamo il pigiamino... Che bello...». 

NATALE A NEW YORK... CON SAUNA
Era sempre buffo, buffissimo. Un’altra volta, a New York, festeggiammo insieme il Natale in casa di Dino De Laurentiis. Dopo la mezzanotte Silvana Mangano ci portò in un luogo che allora faceva scalpore: una sauna gay. Era il 1972. Si chiamava Continental Bath. Entrammo, tutti elegantissimi. Il locale, invece, era pieno di giovani omosessuali che ballavano mezzi nudi. Sordi, spaesato, si fermò ad osservare un ragazzo efebico, in piedi su un tavolo, coperto da un minuscolo telo bianco, che danzava accompagnato dal battimani degli amici. A un certo punto il ragazzo si girò e vedendo Alberto esclamò: «Alberto Sordi!». Era un italiano. A quell’epoca non esisteva ancora il coming outing e quel giovanotto era venuto a New York la notte di Natale sicuro di non essere visto da nessuno. Ma faccia faccia con Sordi non aveva potuto trattenere il suo entusiasmo. Alberto fece ancora una volta la sua risatina e gli disse: «Ma che stai a fa qui? Mò te pijo per le orecchie e te riporto in Italia a casa da mamma!». 

UN MARZIANO A ROMA
Con Bernardino Zapponi scrissi insieme ad Alberto la sceneggiatura di “Un marziano a Roma” tratta dal racconto di Ennio Flaiano. Che poi Alberto non fece in tempo a dirigere. Quando arrivavo a casa sua, mi piaceva giocare con una sua cagnetta grassoccia, si chiamava Domenica. Un giorno non la trovai e chiesi ad Alberto dov’era. Lui rispose: ”E’ scoppiata”, Non capii e lui mi spiegò: “ Ieri stavo a cena e ho sentito un botto in cucina…Sai com’è, le mie sorelle a Domenica giù a daje da magnà…Giù a daje da magnà…Alla fine bum…E’ scoppiata». Me lo aveva raccontato per sfatare la sua nomea di avaro. Non lo era affatto. Alberto, di nascosto, faceva molta beneficienza. Perché era generoso e molto credente. Un giorno mi disse: «Io mica ho paura di morire… Ho parlato con Lui, lassù in Paradiso, e mi ha detto che m’ha riservato una suite».

QUEL BIMBO AMERICANO
Non si era mai sposato ma raccontava di avere un figlio. Dal taschino della giacca tirava fuori la foto di un bambino americano di due anni, un pacioccone biondo bellissimo, sorridente (era la foto di una pubblicità di omogeneizzati), si metteva a sbaciucchiare la foto e diceva: «E’ mio figlio! Quanto gli voglio bene!». Sulla mia scrivania, invece, c’è una foto vera di Albertone con il cappello da cowboy insieme a Carlo e me piccolissimi. Ma quella foto, in realtà, non sta sulla mia scrivania, è inchiodata al mio cuore.
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