Mentre Mr. Holmes di Bill Condon si difende benissimo da sé, anche se non esce nemmeno per un nanosecondo dai binari del cinema più tradizionale che ci sia.
Sono i paradossi dei grandi Festival, sempre pronti ad accogliere Autori con la A maiuscola che non hanno più niente da dimostrare, e a piazzare fuori gara film di puro intrattenimento che però fanno tirare
un respiro di sollievo.
Sia chiaro, ci piange il cuore a scrivere queste cose. Fino a pochi anni fa ci saremmo fatti crocifiggere per Terrence Malick. Purtroppo però adesso è lui a metterci in croce con i suoi cinepoemi in cui i personaggi sono ridotti a luoghi comuni, il racconto langue, e l’enfasi impazza fimo a cancellare, paradossalmente, la bellezza di immagini che dopo un quarto d’ora iniziano a girare a vuoto e non si fermano più.
Succedeva con The Tree of Life, palma d’oro a Cannes. Andava anche peggio con To The Wonder. Knight of Cups conferma la tendenza. Al centro di tutto c’è Christian Bale, che lavora a Hollywood, non si capisce bene in che ruolo, e sembra avere tutto ciò che si può desiderare e molto di più, a partire da un corteo senza precedenti di bellezze da urlo, ma cerca senza trovarlo un senso a tutta quella babele di sensazioni forti che lo lascia regolarmente stordito e
insoddisfatto.
Sfilano amori e disamori, opulenza e miserie, spiagge e terremoti, festini in piscina e barboni in ospedale, Antonio Banderas e un quasi irriconoscibile Ryan O’ Neal, enrambi nei panni di se stessi, più un difficile legame col padre e il fratello (Brian Dennehy e Wes
Bentley). Ma se le immagini sono spesso meravigliose, la trama che poco a poco prende corpo, sospinta da una voce interiore eternamente
sussurrante, è così ovvia e banale che la meraviglia cede ben presto al tedio e all’irritazione.
Logico che poi ci si consoli con lo Sherlock Holmes 90enne di Bill Condon (un immenso Ian McKellen). Che da campione di logica non ha perso un grammo di intelligenza, ma soffre di vuoti di memoria e fatica a ricostruire, adando a ritroso nel tempo, l’ultimo caso a cui lavorò. Una storia non proprio a lieto fine, anche se poi l’ineffabile Watson l’avrebbe trasformata in un romanzo edificante da cui sarebbe stato tratto anche un film (che Holmes/McKellen va a vedere, con divertimento e fastidio, nel corso del film stesso).
L’ennesima variazione sul mito del più grande investigatore privato della storia, insomma, qui costretto a fare i conti fuori tempo massimo con la propria solitudine e aridità. Ma che divertimento, che
classe, che capacità di racconto.
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