Maturità, Crepet: «Lo scritto serve, i ragazzi imparino a soffrire. Le frustrazioni fanno parte della vita»

Lo psichiatra tra i firmatari dell’appello al ministro: «Così si distrugge l’istruzione»

Maturità, Crepet: «Lo scritto serve, i ragazzi imparino a soffrire. Le frustrazioni fanno parte della vita»
di Lorena Loiacono
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Lunedì 6 Dicembre 2021, 06:38 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 12:06

Paolo Crepet, psichiatra e scrittore tra gli intellettuali che hanno firmato la lettera al ministro Bianchi per il ritorno della prova scritta, la maturità rischia davvero di diventare una burletta?
«Burletta è un eufemismo, un termine cortese utilizzato dal Gruppo di Firenze che si esprime sempre con molta delicatezza. In realtà possiamo dire che l'esame di Stato senza gli scritti rappresenta la distruzione della nostra istruzione. Ricordiamoci che in questo modo penalizziamo i ragazzi e il loro percorso di crescita».
In che modo?
«Per tutti noi, quindi per milioni di studenti, l'esame di maturità ha rappresentato una metafora di crescita: proprio perché era difficile. Non si tratta di nozionismo, ma di lasciare ai ragazzi la possibilità di mettersi alla prova. L'esame è una tracimazione: coincide con il momento in cui finisce l'adolescenza e inizia l'età adulta. Così era per tutti noi, è e sarà in futuro. Non sarà il ministero a cambiare questo passaggio: è l'età che lo impone».

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L'età di passaggio?
«Sì, è il momento in cui si chiude il percorso scolastico e ne inizia una nuovo: per chi poi va a lavorare o all'università. Va affrontato perché le prove nella vita esistono e bisogna saperle affrontare».
Anche tanti genitori hanno firmato la petizione contro gli scritti. Perché?
«Non vogliono l'esame perché porta con sé, da sempre, quel periodo in cui non si vive più. Tante volte mamme e papà mi hanno chiesto come affrontare questa prova, magari con le vitamine o chissà cos'altro».
Come gli risponde?
«Rispondo che basta studiare. sappiamo bene che l'esame di maturità non è una tortura: per trovare qualche domanda esageratamente difficile all'esame, dovremmo tornare in dietro di decenni ma si tratterebbe comunque di pochi casi».
Come deve essere un esame?
«L'esame deve essere fisiologicamente difficile perché si pretende qualcosa per il quale si crede che lo studente sia pronto. Nel pensare che non lo sia, ci vedo tanta arroganza».
Da parte di chi?
«Di chi pensa che questi ragazzi non possano farcela.

Dietro a questa considerazione c'è un cinismo spaventoso: vogliamo risolvere i nostri problemi di genitori, di adulti, evitandoci le angosce e le isterie del 18enne. Se io fossi stato un adolescente sarei stato sicuramente felice, di un esame senza scritti. Ma gli adulti non devono ragionare alla stessa maniera: le frustrazioni fanno parte della vita».

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Non si devono evitare?
«No, dobbiamo avere il training alle frustrazioni: c'è un esame troppo difficile? Va affrontato al meglio che si può».
Questi ragazzi vengono però da due anni difficili. Sono preparati?
«Possono esserlo. Da qui a giugno possono mettersi sui libri a tradurre greco e latino, le lingue straniere o a esercitarsi con matematica, fisica. Parliamo sempre, bisogna ricordarlo, di un esame che promuove oltre il 99% dei candidati. Quindi si tratta già di un esame assolutamente non selettivo: è un esame già fallito tecnicamente, da libri in tribunale. Ora dobbiamo togliere anche gli scritti perché abbiamo passato due anni difficili? Questo politically correct per il quale bisogna togliere le difficoltà, potrebbe non avere mai fine».
Dove può portare?
«Dopo la maturità alleggerita, dovremo alleggerire anche l'esame di accesso all'università perché questi ragazzi se non possono affrontare l'esame di Stato non possono fare neanche quello di ingresso a medicina. E così iniziamo un percorso di demolizione della preparazione. Ma rimandare la selezione mi sembra solo cinismo».
Che significa?
«La selezione prima o poi arriva. Io sono entrato a medicina senza test, perché all'epoca non c'era, sa cosa è successo? Al secondo anno l'aula era decimata. La cosa più cattiva che si può fare agli studenti, infatti, è pensare che poi arrivino tutti al traguardo. A meno che non ci si inventi una cattiveria ancora più sottile».
Quale?
«Abbassare la difficoltà di tutti gli esami: così avremo laureati che pensano che la terra, al limite, potrebbe essere piatta. Voglio dire: abbassando la qualità della formazione ci ritroveremo una generazione di diplomati impreparati. Ma allora chi lo reggerà il Paese? Spero non ci sia qualcuno che pensa che negli altri Paesi, ad esempio a Shangai, si ragioni così. Lì la selezione esiste e non si è fermata con il Covid: costruiscono una classe dirigente che ci travolgerà».

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In Italia cosa si rischia?
«Noi fino ad oggi ci siamo difesi, abbiamo difeso le nostre industrie e le nostre aziende perché eravamo bravi. Potremmo non esserne più in grado. E' semplice da capire. Ma esiste anche un forte senso di colpa».
Per cosa?
«Abbiamo capito di aver prodotto dei danni, non riuscendo a gestire meglio la didattica in questo periodo, e ora per ripararli facciamo ancora più danni».
 

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