Coronavirus, chi sono i volontari che si fanno infettare con il virus: giovani e laureati

Sophie Rose è fra gli oltre 3 mila giovani che si sono offerti di farsi infettare con il coronavirus
di Pietro Piovani
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Martedì 28 Aprile 2020, 12:16 - Ultimo aggiornamento: 12:17

Ci sono migliaia di persone disponibili a farsi infettare deliberatamente dal coronavirus, per il bene dell'umanità. Sono i volontari che hanno aderito alla richiesta di fare da cavie estreme, per testare in tempi rapidissimi i vaccini in corso di sperimentazione. La questione è semplice, e ormai abbastanza nota anche fuori dagli ambienti scientifici e medici. La normale procedura per validare un nuovo vaccino richiede molto più tempo di quanto il mondo è disposto ad attendere.

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Per capire se una profilassi è davvero valida non basta vedere gli effetti a breve termine, quelli possono solo dirci se il farmaco inoculato può fare male o no, ma non stabiliscono se riesce davvero a sviluppare un'efficace protezione immunitaria. Per sapere se un vaccino ci protegge davvero bisogna aspettare molti mesi, anzi anni, finché non si arriva a vedere una rilevante differenza nel tasso di contagio tra i volontari a cui il vaccino è stato inoculato e quelli che invece hanno ricevuto solo un placebo. Ma c'è un modo per abbreviare drasticamente questa attesa: far venire subito a contatto con il virus coloro che partecipano alla sperimentazione. Ed è appunto ciò che si sta facendo, ad esempio, negli Stati Uniti.

Seguendo questa procedura, i ricercatori possono ottenere in pochi giorni la risposta che in condizioni normali arriverebbe dopo anni, oltretutto coinvolgendo un numero inferiore di volontari, il campione statistico può diventare molto ridotto. Ma è un metodo che ha, come è evidente, una grossa controindicazione: mette in serio pericolo l'incolumità di chi partecipa alla prova. Se il vaccino non funziona, il volontario si ammala di Covid, esponendosi a tutti i rischi che conosciamo, e le probabilità che non funzioni sono alte per i tanti prodotti che finora sono stati verificati solo con prove di laboratorio o al massimo con qualche test sulle cavie. La preoccupazione però non ha frenato le oltre 3 mila persone che già si sono offerte di partecipare ai programmi di sperimentazionne rapidi avviati negli Stati Uniti. Sono volontari di tutte le nazionalità, che però hanno una caratteristica in comune: sono tutti giovani e in buona salute. Le ragioni sono evidenti, si possono infettare deliberatamente con il Sars-Cov-2 solo individui che appartengono alle fasce meno a rischio, quelli per i quali le probabilità di morte sono estremamente ridotte: stando ai dati italiani forniti dall'Istituto superiore di sanità, il tasso di letalità tra i pazienti che hanno fra i 40 e i 49 anni è dello 0,6%, per quelli fra i 30 e i 49 anni è dello 0,3%, e per quelli sotto i 30 anni la percentuale è praticamente zero. Rischi bassissimi dunque, ma non del tutto inesistenti, e comunque anche un giovane se contagiato può andare incontro a una forma grave di malattia, con forti difficoltà respiratorie che possono portarlo anche a finire intubato in terapia intensiva, e l'eventualità di uscirne con conseguenze serie e anche permanenti per la propria salute esiste.

Ma c'è chi non si spaventa. «Sono nella posizione di potermi assumere questo rischio, perché non farlo?» dice Sophie Rose, una ragazza di 22 anni che si è laureata all'universitò di Stanford e che ha aderito all'appello lanciato dal gruppo “1DaySooner” (ovvero “un giorno prima”), un'associazione nata negli Stati Uniti per trovare volontari disposti a collaborare con la ricerca contro il Covid-19. Sopie - intervistata dal giornale di San Francisco Mercury News – racconta cosa l'ha spinta a offrirsi: «Vedere le sofferenze, le perdite di vite umane, e i danni che l'epidemia provoca all'economia, alle relazioni internazionali, alla stabilità sociale... I rischi per me sono molto bassi sono giovane, non ho patologie pregresse, non fumo. Stando ai dati, le probabilità di contrarre una forma grave della malattia sono minime. Ho considerato attentamente la possibilità di ammalarmi sul serio, ma mi sta bene perché so che potrei ricevere cure mediche adeguate. I miei genitori sono persone molto altruiste e capiscono il mio desiderio di aiutare gli altri, certo sono sempre genitori e si preoccupano».

Anche Carson Poltorack è un laureato di Stanford, ha 23 anni, ha studiato biologia cellulare e molecolare, sta cominciando il suo dottorato e partecipa a una ricerca sulle cellule tumorali dei polmoni. «Partecipare a me è sembrata una cosa ovvia» spiega. «Un modesto sacrificio per me, che in grande scala può portare enormi benefici. C'è chi domanda: come si può dare il “consenso informato” a essere infettati, se non si sa ancora quali saranno gli effetti a lungo termine sulla salute di questo virus? Un'obiezione che non tiene conto del fatto che già 3 milioni di persone nel mondo si sono contagiate senza dare il minimo consenso, e ogni giorno se ne contagiano altre 100 mila. A mio modo di vedere, è molto meglio se un piccolo gruppo di persone a basso rischio si fanno infettare intenzionalmente, se questo può servire a ridurre drasticamente il numero delle vittime totali».

Il metodo dell'“human challenge trial”, come viene chiamato il sistema dei testi con l'infezione sui volontari, sta suscitando le critiche di chi contesta sul piano etico l'utilizzo di vere e proprie cavie umane. È vero che queste cavie hanno la garanzia delle migliori cure mediche, ma c'è chi fa osservare che al momento vere ed efficaci terapie non ce ne sono, dunque quando si parla di cure mediche alla fine ci si riferisce alla possibilità di finire intubati con un ventilatore che garantisca la respirazione artificiale.
Non è chiaro poi se a questi volontari venga garantito anche un compenso economico né a quanto ammonterebbe. Anche in Italia sono state sollevate perplessità da esperti come il farmacologo Silvio Garattini o il filosofo della medicina Ivan Cavicchi.

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