Virus, ora c'è chi non esce più: per gli esperti è la “sindrome capanna”

Virus, ora c'è chi più non esce più: per gli esperti è la “sindrome capanna”
di Lucilla Vazza
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Mercoledì 20 Maggio 2020, 08:07 - Ultimo aggiornamento: 11:28

Calato il sipario sul lockdown e chiusa una fase inedita della nostra storia recente, cosa resta nell'esperienza profonda dopo settimane in casa? Alle saracinesce aperte corrisponderà anche la voglia di aprirsi alla vita, alle uscite, agli incontri? Non è detto. La fine della reclusione fa emergere una diffusa riluttanza per il ritorno alla normalità, perché tutto sommato sono state settimane di relax ritrovato, introspezione, al punto che gli esperti parlano di effetto capanna, un ritiro in una sorta di bolla confortevole.
PRO E CONTRO
«Molte persone sono state bene in questa bolla di sospensione e si sono adattate con una sorta di piacere alla situazione: meno stimoli faticosi, meno traffico, rumori - chiarisce la psicoanalista Simona Argentieri - Una sospensione che ha comportato un calo dello stress, che è un fatto positivo, ma anche un certo ritiro e un calo vitale, che non va bene, soprattutto a una certa età. È stata un'esperienza inconsueta, ma il buon senso ci deve aiutare a trovare una misura. Mi preoccupa il tema del risarcimento che sta emergendo nelle persone che si sentono abbandonate dallo Stato perché hanno perso il lavoro. Bisogna evitare che la legittima richiesta di assistenza diventi rabbia, un pessimo ingrediente sociale».

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Nei primi giorni di lockdown per il coronavirus è stata raccontata una dimensione di ritrovato calore familiare, di armonia di coppia. Si cantava dai balconi, sui social spopolavano arcobaleni e sorrisi. «Non credo sia stata una fase idilliaca, tutt'altro - rincara Argentieri - perché la convivenza forzata ha messo a dura prova i rapporti. Ma il problema vero per qualcuno è stato l'effetto doccia scozzese: prima avevamo troppi stimoli, poi all'improvviso troppo vuoto, troppe poche emozioni. Con una sensazione di disorientamento, non per forza patologico, che ho sperimentato io stessa e che mi hanno riferito alcuni miei pazienti che si sono accucciati volentieri in questa situazione. Ora bisogna sforzarsi di uscire».
Stesso richiamo va fatto a giovani e giovanissimi, perché se la maggior parte di loro scalpitava per uscire, non pochi stanno facendo fatica a uscire dalla comfort zone fatta di tecnologia e calore domestico. «Si sono abituati a stare in casa, dove hanno creato un microcosmo digitale che funziona: lezioni scolastiche, chat con gli amici, fitness, giochi online - dice la psicologa Maura Manca, presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenza. Il rischio è che dal sacrosanto distanziamento sociale anticontagio si passi all'isolamento che può creare un ritiro patologico. E questo può sfociare nel fenomeno, in crescita anche in Italia, degli hikikomori, giovani che non escono più di casa».

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I SERVIZI
L'Organizzazione mondiale della sanità, nei giorni scorsi, ha lanciato l'allarme e richiamato gli Stati a una maggiore attenzione alla salute mentale dei cittadini. Sulla stessa linea d'onda gli psichiatri italiani che hanno segnalato al governo la necessità di potenziare i servizi territoriali, indeboliti da anni di tagli e che già oggi, registrano un aumento considerevole di richieste d'aiuto. «Tutte le preoccupazioni legate alla nostra percezione della realtà vanno vissute con coraggio e possibilmente cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno, con uno sforzo di creatività e di positività - spiega Massimo Di Giannantonio, presidente della Società italiana di psichiatria - Ma bisogna anche guardare a cos'è successo nel nostro mondo interiore: sono venute meno certezze, abbiamo visto la malattia, c'è crisi economica. Se la paura diventa patologica e paralizzante bisogna chiedere aiuto agli specialisti. I campanelli d'allarme sono un'alterazione importante del meccanismo sonno-veglia, un'eccessiva ansietà, una dimensione depressiva e mancanza di motivazione, la paura di non riuscire a essere chi eravamo prima. Non bisogna vergognarsi, sono sintomi comuni oggi a milioni di donne e uomini in tutto il mondo. Chiedere aiuto non significa essere malati, ma avere l'umiltà e il coraggio di ammettere che c'è un malessere e che va risolto per andare avanti».
 

 

 

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