Politica: riforma elettorale non più rinviabile
Sarà decisivo nel 2022 decidere sulla legge elettorale.
Lo sarà anche se, speriamo di no, si decidesse di lasciare
tutto com'è. Il modo di scegliere la rappresentanza
della nazione è dirimente: deve far in modo sia di produrre
un sistema di governo capace di decidere, sia di dare al paese la
consapevolezza che tutto si è svolto salvaguardando la
partecipazione a pari titolo dei cittadini alla costruzione del
bene comune.
Le alternative che sono in campo sono due in termini generali (poi
ci sono un mare di tecnicalità spicciole). La prima è
scegliere un sistema che produca innanzitutto un governo,
cioè che faccia uscire dalle urne un vincitore
indiscutibile. I sistemi di tipo maggioritario sono i più
brutali da questo punto di vista: una maggioranza viene prodotta
per forza. Funziona se quella maggioranza non è sentita come
una prevaricazione su chi non ne fa parte, se ad essa non è
consentito di fare l'asso pigliatutto.
Il caso Giustizia/ La riforma incompleta da ultimare ad ogni costo
Altrimenti produce il prodromo di una guerra civile si spera a
bassa intensità, dove chi perde delegittima chi vince, il
quale a sua volta si ritiene in diritto di tiranneggiare su chi ha
perso.
La seconda modalità è optare per un sistema di tipo
proporzionale che punta a fotografare la distribuzione dei
consensi, limitandosi a prendere in considerazione quelli che
superano una certa soglia che li rende significativi. Non fornisce
che molto raramente un vincitore, ma chiede che i consensi
frammentati si uniscano poi fra loro fino a formare una
maggioranza, che però non sarà una maggioranza
legittimata dal voto, ma dal negoziato per obiettivi fra le parti
politiche.
E' facile argomentare e contro argomentare in entrambi i casi.
Senza perdersi in disquisizioni di teoria politica o lasciarsi
andare a calcoli su chi abbia più convenienza in un sistema
e chi in un altro, il tema di fondo del 2022 sarà se le
forze politiche riusciranno a produrre una normativa che: a) eviti
le forzature a coalizzarsi per mere ragioni di convenienza (roba
che dura poco, l'abbiamo già sperimentato); b) aiuti i
cittadini a scegliere responsabilmente una classe politica senza
cadere nelle spire del populismo che li porta ad occasionali scelte
di pancia.
di Paolo Pombeni
Economia: la crescita dipenderà dal fattore inflazione
L'inflazione. È questo il parametro che terrei sotto
controllo nei primi due mesi dell'anno, per avere
un'anticipazione di come potrebbe essere il 2022
dell'economia italiana. Se il 2021 è stato un anno nel
quale gli astri si sono allineati favorevolmente, è
l'inflazione il fattore che, al contrario, può
riportarci in una tempesta perfetta.
Sono tre le ciambelle che ci hanno salvato: un Parlamento debole
che si è ricompattato attorno all'unica
personalità, il cui prestigio è sufficiente per
ribaltare in credito, antichi pregiudizi nei confronti
dell'Italia. Un Piano di Rilancio di 200 miliardi finanziato
dall'Unione che ribalta la carenza di investimenti pubblici che
dura da trent'anni, in un intervento capace di trasformare il
Paese. Infine, la politica monetaria della Banca Centrale (BCE) che
ha iniettato 1,600 miliardi di euro nell'economia europea come
risposta all'emergenza pandemica e di ridurre a meno dello 0,5%
gli interessi che l'Italia paga su nuove emissioni di un debito
pubblico di 2.750 miliardi. La contemporaneità di tali
circostanze crea le condizioni per un miracolo in grado di farci
crescere di più riducendo, allo stesso tempo, il debito che
ci zavorra.
Tuttavia, saranno già i primi mesi del prossimo anno a
dirci se il Paese appena nominato la stella del 2021
dall'Economist potrà continuare a brillare. E, qui,
arriva l'inflazione. Infatti, è lo statuto della Bce che
definisce che l'obiettivo principale della banca è
conservare il tasso d'inflazione sotto il 2% nell'area euro
ed è il suo servizio studi a dire che stiamo sfondando
questo tetto: a novembre siamo arrivati al 4,9% che è il
livello più da quando l'euro e la Bce sono nate.
Parte dell'aumento è legato ai prodotti energetici e,
tuttavia, anche l'inflazione core (che li esclude) è al
2,6% e ciò costringe la Bce a considerare una progressiva
chiusura di un programma che scade a marzo. Ciò produrrebbe
un aumento degli interessi e del costo del debito pubblico e
potrebbe spingere Mario Draghi a non affrontare una sfida doppia
politica ed economica ancora più incerta.
di Francesco Cirillo