Microchip «guardiano della nostra salute». L'ingegnere Marrocco e la tecnologia Rfid: «Così agiscono i sensori nel corpo umano»

L’ingegnere dell’Università romana di Tor Vergata spiega la tecnologia Rfid, che il suo laboratorio sta sviluppando: «Ecco come agiscono questi sensori nel corpo umano»

Microchip «guardiano della nostra salute». L'ingegnere Marrocco e la tecnologia Rfid: «Così agiscono i sensori nel corpo umano»
di Paolo Travisi
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Lunedì 20 Febbraio 2023, 07:24 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 10:08

Non conosciamo ancora tutto del nostro corpo. Specialmente le reazioni interne, le più difficili da monitorare, soprattutto nell'esatto momento in cui accadono. Tra le tendenze della medicina del futuro, ci sarà anche lo studio della fisiologia dall'interno dell'organismo umano, che sarà reso possibile da nuovi micro sensori, privi di batterie, che quindi non causano alcuna interazione rischiosa e con l'apparato umano. Ne abbiamo parlato con Gaetano Marrocco, ingegnere a capo del laboratorio di elettromagnetismo pervasivo dell'Università di Tor Vergata a Roma.

Si chiamano sensori Rfid, cosa sono?
«È una tecnologia di cui mi occupo da circa 20 anni, che permette l'identificazione a radio frequenza; è l'evoluzione del più celebre codice a barre che troviamo ovunque, il quale richiede un lettore ottico per dare accesso ad una specifica informazione. Dopo vari passaggi si è arrivati all'etichetta elettromagnetica, in cui l'informazione è concentrata in un piccolo chip, attivato dall'esterno da un'antenna. Si tratta di un sistema molto simile al dispositivo che usiamo per l'autostrada».

Come funziona questa tecnologia?
«Quando il sensore si trova vicino ad un lettore, il campo elettromagnetico prodotto, viene raccolto dall'antenna che alimenta il microchip e che rimanda indietro un segnale codificato in digitale che identifica l'oggetto. La tecnologia del sensore resta silente finché non viene interrogata da un dispositivo esterno».

Come è fatto?
«C'è un microchip che ha dimensioni variabili da pochi millimetri a pochi centimetri, in base all'applicazione finale, un'antenna stampata su un supporto plastico o un filo, che riceve l'energia ed attiva il chip, il quale a sua volta preleva il dato dalla memoria e lo riflette indietro, tramite una sorta di interruttore che cambia il modo in cui l'onda elettromagnetica viene riflessa».

Un esempio pratico?
«Pensiamo al catarifrangente, che solo quando viene illuminato dai fari delle macchine rivela il segnale stradale, mentre al buio non invia alcuna informazione. Il concetto è lo stesso».

E qual è stata la vostra innovazione rispetto ad una tecnologia già esistente?
«Abbiamo associato a quell'informazione anche quella dello stato fisico dell'oggetto su cui è etichettato il sensore; per esempio temperatura, umidità, deformazione, pressione, presenza di grandezze fisiche e chimiche. Dopo anni di applicazioni in campo ambientale, siamo passati alla medicina, perché possono essere integrati sulla pelle, sensori epidermici, ma anche all'interno di protesi corporee, che diventano generatori di dati, come una capsula dentale».

Li avete testati nella bocca?
«Proprio così. Tutto è nato da una sfida lanciata agli studenti di ingegneria medica di Tor Vergata, a cui ho chiesto di usare il perno di metallo della protesi dentale come un'antenna che attiva il sensore impiantato sulla capsula.

Da lì abbiamo usato il sensore per rivelare la temperatura, che indica un'infezione in corso, per esempio una carie, ma possiamo usarlo per la pressione tra i denti, quindi per il bruxismo e l'informazione è leggibile da un'antenna esterna a forma di cerotto di silicone applicabile sulla guancia. Questa filosofia è replicabile a qualsiasi altra protesi interna, che avrebbe un ruolo predittivo, perché in grado di catturare sintomi minimi che ancora non vengono percepiti dal corpo».

Tre le applicazioni possibili, state sperimentando anche la respirazione, specialmente quella dei bambini.
«Oggi per un'analisi precisa del respiro, si inseriscono dei tubicini del naso, una soluzione molto invasiva e non applicabile a bambini molto piccoli. Sfruttando le ricerche sull'elettronica epidermica, invece, insieme a Nicoletta Panunzio e Francesco Montecchia, abbiamo sviluppato dei sensori che si applicano sotto al naso e misurano la temperatura diversa quando si inspira ed espira per profilare il respiro. Abbiamo fatto un esperimento al Policlinico Umberto I di Roma mettendola a paragone con la spirometria tradizionale, appurando che sono due tecniche quasi interscambiabili. Inoltre stiamo svolgendo dei test anche sui neonati e sul respiro in mobilità, per esempio negli atleti, molto difficile da monitorare, ma eseguita in condizioni più realistiche di quanto fatto fino ad ora. E questa sarebbe una novità assoluta».

Potrebbe trovare applicazione anche in ambito cardiaco, per esempio attaccando il micro sensore ad una valvola cardiaca?
«Abbiamo già un progetto avanzato su questo fronte, sviluppato insieme a Federica Naccarata, Roberto Verzicco, Cecilia Occhiuzzi e Miriam Gagliardi. L'obiettivo è trasformare una protesi cardiaca che è un oggetto privo di elettronica, in un oggetto in grado di trasferire dei dati, come per il dente, sfruttando l'infrastruttura interna, lo stent che ha parti metalliche e quindi può funzionare come un'antenna».

Che informazioni può trasferire?
«La temperatura all'interno dell'arteria, quindi la massima precisione, la pressione sanguigna, il funzionamento della valvola, problemi di infezione, insomma avremmo una finestra interna del corpo ed in uno scenario diagnostico, ad un medico basterà posizionare un'antenna sul torace del paziente per interrogare la protesi valvolare cardiaca sensorizzata».

Avete già fatto dei test?
«La tendenza della ricerca e lo sviluppo di case biomedicali stanno iniziando ad occuparsi di queste protesi che io definisco cyber, perché hanno proprietà non solo meccaniche o chimiche, ma anche digitali. Credo che entro i prossimi 10 anni, l'approccio sarà questo e cambierà quello relativo allo studio della fisiologia, aprendo nuovi scenari e consegnandoci ulteriori conoscenze sul funzionamento del nostro corpo, grazie ad una tecnologia che prevede modifiche davvero minimali sull'oggetto impiantato».
 

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