Terza dose vaccino, Abrignani (Cts): «Inevitabile. E mascherine in ufficio»

Abrignani (Cts): «Terza dose inevitabile. E mascherine in ufficio»
di Mauro Evangelisti
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Sabato 11 Settembre 2021, 22:37 - Ultimo aggiornamento: 12 Settembre, 22:43

«La terza dose sarà necessaria per tutti, nell’arco di sei-dodici mesi dalla seconda. Per tanti vaccini è un percorso abituale».

Ma è vero che i vaccini fanno sviluppare le varianti?

«No. È una minchiata».

Il professor Sergio Abrignani è componente del Comitato tecnico scientifico, immunologo dell’Università statale di Milano, da vent’anni si occupa di vaccini.


Professore, gli ultimi dati dell’Istituto superiore sull’efficacia sono rassicuranti. Ma dobbiamo preoccuparci per una progressiva futura riduzione della protezione?
«Se lei guarda i dati di Israele dopo due dosi c’è un abbassamento dell’efficacia, dall’85-90%, al 65-70, sull’infezione.

Ma sono sempre ottimi livelli, se ce lo avessero detto la scorsa estate, avremmo firmato. E sarà possibile fare una correzione con la terza dose. Israele sta pubblicando i dati che dimostrano che grazie a questo, si ritorna ai livelli di efficacia massimi».


Israele sta offrendo la terza dose a tutti. L’Italia per ora a pazienti immunodepressi e, successivamente, a over 80 e operatori sanitari.
«Noi stiamo facendo lo stesso di Israele, ma con tre mesi di ritardo perché loro hanno iniziato prima. Dobbiamo ancora finire la vaccinazione con due dosi. Iniziamo con i fragili, per loro la terza iniezione serve non perché si sta affievolendo la memoria immunologica, ma perché non hanno una risposta sufficiente dopo le due dosi. Per tutte le altre persone, la risposta c’è, con il tempo si affievolisce, con il richiamo la fai tornare alta. Poi anche noi daremo la terza dose agli operatori sanitari, agli ottantenni, per proseguire, io credo, ai settantenni, ai sessantenni, a scendere. Sarà assolutamente utile farlo per tutte le classi di età, in un lasso di tempo tra i 6 e i 12 mesi. Tenga conto che la terza dose, che sembra una cosa esoterica, in realtà in vaccinologia è la regola, se esclude i vaccini a base di virus vivi attenuati».


Quasi 1,5 milioni di italiani sono stati vaccinati con una sola dose di Johnson&Johnson. Vale lo stesso principio?
«Non ci sono ancora i dati. Non sappiamo quanto decada la protezione. Se dal 70% dopo sei mesi passasse al 20, allora dovremmo fare la seconda molto prima. Ciò che sappiamo ad oggi è che con Pfizer e Moderna dopo sei mesi c’è un decadimento di circa un terzo dell’efficacia, che rimane comunque ben al di sopra al 50%. E soprattutto, me lo faccia sottolineare, è un decadimento rispetto all’infezione, ma è molto meno rilevante per quanto riguarda l’efficacia nel prevenire la malattia severa. Noi stiamo vivendo un’emergenza unica nella storia moderna: una pandemia che sta uccidendo milioni di persone. Non dimentichiamo che tutto l’inverno scorso, quando la vaccinazione non c’era o era appena cominciata, abbiamo avuto 15 mila morti al mese. A chi dice che non dovevamo vaccinare, vorrei chiedere: qual era l’alternativa? Lasciare morire le persone? Se oggi tutti fossero vaccinati non avremmo 50-60 morti al giorno, ma 5».


Il prossimo inverno sarà differente?
«I morti saranno molti di meno. Salvo che non venga fuori una variante che aggiri i vaccini. Ma ad oggi nulla ci fa pensare questo».


Dobbiamo sperare che la Delta resti dominante visto che i vaccini la fermano.
«Sì, ce lo eravamo detti anche con l’inglese. Il ceppo originale di Wuhan aveva un Ro di 2,5, in una popolazione ogni infettato ne contagiava, in media 2,5. L’inglese, la variante alfa, aveva un Ro di 4. Infine, con la Delta siamo a 8. Circola velocemente, però è abbastanza riconosciuta dal vaccino. Non è un paradosso: fino a quando resta la Delta, possiamo difenderci con efficacia. In teoria dovremmo sperare che venga fuori una variante con Ro di 15, ma assolutamente non patogenica, che ci dà solo un raffreddore. Ma non è scritto da nessuna parte che questo avvenga, neppure però che si sviluppi una variante che aggiri i vaccini».


C’è chi dice che vaccinando si favoriscono le varianti.
«Una minchiata. L’alfa (l’inglese) si è sviluppata nel Kent, da un paziente immunocompromesso, quando non c’erano i vaccini, la Delta in India quando c’erano centinaia di milioni di persone non vaccinate. Sfido chiunque a dirmi, nell’esperienza passata, un virus che causi una infezione acuta per il quale la vaccinazione abbia fatto generare le varianti. Uno solo. Si confonde una risposta immunitaria che insorge dopo una infezione con una risposta immunitaria che c’è prima dell’infezione. Si fa quel ragionamento, sbagliando, riferendosi all’Hiv, all’epatite C, infezioni croniche in cui sappiamo che c’è una risposta immunitaria del paziente ma il virus che si sta replicando muta di continuo per sfuggirla. Tutta un’altra cosa».


Quando sarà introdotto il Green pass nei luoghi di lavoro si potrà fare a meno della mascherina o del distanziamento?
«Ritengo di no, almeno fino a quando non avremo almeno il 90 per cento degli italiani vaccinati bisogna usare la mascherina perché non sempre è possibile garantire il distanziamento. Anche tra i vaccinati un terzo può essere infettato e a questi si aggiungono coloro che ottengono il Green pass con il test antigenico. Giusto essere prudenti e proseguire con le mascherine».

 

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