La mamma di un tossicodipendente: «Le parole del prefetto? Un pugno nello stomaco»

La mamma di un tossicodipendente: «Le parole del prefetto? Un pugno nello stomaco»
di Carla Massi
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Domenica 22 Giugno 2014, 23:38 - Ultimo aggiornamento: 25 Giugno, 21:49
«Non solo noi madri che abbiamo figli tossicodipendenti ci dovremmo suicidare perché, come dice il prefetto di Perugia, siamo fallite ma dovremmo anche mozzare la testa ai ragazzi. Una mattanza».

Chiara da quasi vent’anni frequenta a Roma, due volte a settimana, il gruppo di Familiari anonimi. Parenti di persone che sono o state dipendenti da sostanze. E’ una veterana, una guida per i genitori nuovi che partecipano al gruppo di Roma. Anonimo e gratuito. (www.familiarianonimiitalia.it). Parla con calma, quella calma che fa trasparire furia e dolore.

Come le sono arrivate le parole del prefetto?
«Un pugno nello stomaco. Ha ritirato fuori vecchi discorsi, vecchie concezioni. Quando si credeva che fosse la repressione a risolvere il problema. Senza conoscerlo. Spingendoci ad ucciderci e ad uccidere».

Tutto sta nella mancata educazione?
«Ma di che parliamo? In quante famiglie un figlio è tossicodipendente e gli altri no. Quello che ha scelto la droga è stato, per caso, educato in modo diverso? Forse non sono state notate, in tempo, alcune sue fragilità. Forse no. Ma quando stai in quella situazione vuoi solo lottare».

Ma ci si accorge davvero tardi se un figlio si fa?
«Ci si accorge tardi perché i tossicodipendenti sono degli abili manipolatori. Riescono ad imbrogliare. Il tossico in casa crea un vortice di follia che, nella tragedia, contagia tutti. I più grandi e i più piccoli».

Colpevole sarebbe il mancato controllo, che dice?
«Il mancato controllo? La droga si insinua anche nelle famiglie più controllanti, quelle in cui i ragazzi sono bravi a scuola e non sono palesemente emarginati. Il tossicodipendente non è solo quello che troviamo agli angoli delle strade ubriaco e fatto. Molti, di botto, si trovano un figlio cocainomane. Certo in alcuni casi sarà pure colpa dell’ inadeguatezza dei genitori. Ma, come noi vediamo ai nostri gruppi, parliamo di persone o ragazzi con difficoltà di vario tipo».

Le mamme si colpevolizzano? Lei?
«Certo che le mamme si colpevolizzano, anche io mi sono colpevolizzata per anni. E’ naturale, ma solo la lucidità e non la confusione con il dipendente aiuta tutti ad uscire dal dramma»

I suoi ricordi più drammatici?
«Durante le notti. Quando un figlio, una figlia o un marito non torna a casa comincia l’angoscia. La ricerca affannosa nel quartiere, le telefonate. L’ospedale, l’attesa alla finestra. L’attenzione a non svegliare gli altri. E quando torna, è una lotta impari. In cui c’è tutto, anche la paura della morte».

In casa aleggia la paura di morte?
«Sempre. Per questo non si può parlare di suicidi...»

Fino a quando?
«Finché la famiglia tutta non riprende il suo equilibrio e fa capire al ragazzo o la ragazza che può vivere tranquilla anche se lui o lei si comporta in quel modo. Fatto di aggressioni, malesseri, liti. Quanti pianti, quante discussioni inutili».

Sopravvivere nonostante tutto?
«Ai figli va detto: “Noi siamo a tua disposizione, ti aiutiamo ma tu devi entrare in un programma di recupero”. Come i gruppi, o la comunità. Dare pochi soldi, mettere dei paletti, fermare le loro manipolazioni».

E mamma come va avanti?
«Solo se riacquista fiducia in se stessa e non si crede di poter da sola curare suo figlio».
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