Francesco Parisi, medico dei trapianti: «I miei 339 bambini cresciuti con il cuore di un altro»

Francesco Parisi, medico dei trapianti: «I miei 339 bambini cresciuti con il cuore di un altro»
di Maria Lombardi
5 Minuti di Lettura
Giovedì 13 Gennaio 2022, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 20:46

«Vi ringrazio tutti. Quello che sono oggi lo devo a voi». Dalla lettera di un medico ai suoi pazienti.

Ai 339 bambini che sono diventati grandi grazie al cuore e ai polmoni di altri. Francesco Parisi, medico trapiantologo, ha lasciato il Bambino Gesù di Roma dopo quasi 40 anni ringraziando chi ha curato. Qualcuno non c’è più, tanti altri studiano, hanno famiglia, lavorano, quattro di loro sono mamme. E lui, il dottor Parisi - per 20 anni responsabile dell’unità di trapiantologia toracica dell’ospedale pediatrico - c’è sempre stato: in sala parto quando Anna e le altre hanno realizzato quel sogno che sembrava impossibile, al matrimonio di Mario, trapiantato a 11 anni, «ora è il più grande paziente che abbiamo». C’era ai controlli di routine, c’era nelle scelte e nei dubbi. Parisi, ora in pensione, racconta in un libro la sua vita professionale che è anche quella dei suoi trecento e più bambini cresciuti con un secondo cuore, il diario di un medico, “Ho visto persone attraversare le Ande” (Carlo Delfino editore), con la prefazione di Roberto Canessa, un cardiologo pediatra uruguaiano sopravvissuto a un incidente aereo sulla Cordigliera. «Dopo averlo letto una mamma mi ha detto: dottore, continui a scrivere. Lo faccia per noi».

Parisi, quale è stato il primo trapianto al Bambino Gesù?

«Era il 6 febbraio 1986.

Il primo trapianto in Italia su un bambino di 10 chili, aveva un anno e tre mese. Fino a quel momento, il paziente italiano più piccolo era di 10 anni, una bambina trapiantata al Policlinico Umberto I. Ivan ha avuto bisogno di un terzo cuore, ma ora ha una figlia, lavora, ancora ci sentiamo. Eravamo dei pionieri al Bambino Gesù, io seguivo i pazienti in terapia intensiva come anestesista e per tutti gli anni dopo l’intervento. Qualcuno ci prendeva per matti. Se va bene, mi disse un collega, la gloria sarà del chirurgo. Se va male, la colpa sarà tua. Camperanno tre anni al massimo, aggiunse. Gli risposi: mi auguro che tra 30 anni continueremo a discutere con questi pazienti. Così è stato».

Quanti bambini trapiantati ha curato?

«In tutto 339. Si crea un legame speciale che dura tutta la vita, bisogna seguirli costantemente, ogni tre mesi anche se stanno benissimo. Si diventa il referente di altri colleghi che trovandosi di fronte a un trapiantato chiedono consigli. Quando abbiamo cominciato non potevamo sapere come questi bambini sarebbero cresciuti, se ce l’avrebbero fatta senza altri trapianti. Nel giugno del 1986 una bambina di un anno fu operata e ha ancora lo stesso cuore».

Alcune, racconta nel libro, sono diventate madri.

«Ho visto nascere i figli di quattro pazienti, una di queste era venuta dalla Spagna per curarsi al Bambino Gesù, aveva 16 anni quando subì un trapianto cardio-polmonare, adesso ha un figlio ventenne. Un’altra operata nel 1988 è l’unica al mondo ad aver affrontato una maternità 30 anni dopo il trapianto. Sono casi unici».

 Quanto è aumentata negli anni la possibilità di sopravvivere?

«Molto. Immaginiamo di dividere i 36 anni di attività in tre periodi identici, vediamo che nel primo la sopravvivenza a cinque anni era del 65%. Nel secondo è arrivata al 75% e nel terzo all’88».

 Lasciando il Bambino Gesù ha inviato una lettera di ringraziamento ai pazienti. Cosa le hanno insegnato? «Quello che sono diventato lo devo a loro. Ho imparato il rispetto, che non vuol dire distanza ma riconoscimento. Che è importante riconoscere la diversità e la ricchezza che ne deriva. Ho imparato che bisogna sempre dare una speranza e mai chiudere la porta, che è importante essere pronti quando la vita volta pagina. Ai pazienti che mi chiedevano e mi chiedono del futuro, rispondo: è possibile. Ma non serve guardare così avanti. Facciamo un passo alla volta, poi ci giriamo e dopo anni scopriamo di aver fatto tutta la scala».

 Come reagiscono i bambini quando vengono a sapere di vivere con il cuore di un altro o che ne hanno bisogno?

«C’è chi se ne vergogna e chi ne fa un vanto, i più problematici sono gli adolescenti. Le difficoltà a volte sono in famiglia. Quando arriva la notizia del trapianto, esplode una bomba. Si tratta di andare al di là dell’esplosione e normalizzarla, non è semplice. Occorre occuparsi del paziente ma anche dei fratelli che soffrono a vedere tutte le attenzioni riversate su chi sta male. Mi è capitato di visitare bambini sani per non farli sentire esclusi. O sono dovuto intervenire con i presidi delle scuole per le eccessive cautele. Un bambino trapianto era stato isolato a mensa, lo lasciavano mangiare in un angolo, e gli avevano riservato un bagno con su scritto: bagno di... Ho dovuto spiegare che così si facevano solo danni».

Un ricordo particolare?

«Un ragazzo che non c’è più, affetto da fibrosi cistica, era candidato al trapianto polmonare, ma i genitori avevano molti dubbi. Un giorno mi telefonò: ho compiuto 18 anni, vengo a mettermi in lista. Si stabilì un rapporto di grande fiducia. Il secondo trapianto fu molto difficile, lui sempre reattivo non ce la faceva più. Sei stanco di combattere e ti capisco, gli dissi, ma c’è una cosa che posso fare per te: un poco di dialisi, ma mi serve il tuo permesso per mettere un catetere nella vena femorale. E lui: se non fa male, fallo. Per quattro anni è stato benissimo, mi portò la medaglia vinta a una gara della scuola di sci. Poi purtroppo l’abbiamo perso. E la madre mi disse: questi ultimi sono stati i migliori anni della sua vita». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA