Andrea Vianello: «Dopo l'ictus non riuscivo a dire il nome dei miei figli. Ora combatto lo stigma di questo male»

Andrea Vianello: «Dopo l'ictus non riuscivo a dire il nome dei miei figli. Ora combatto lo stigma di questo male»
di Carla Massi
4 Minuti di Lettura
Giovedì 8 Luglio 2021, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 21:47

Era un maledetto sabato. Era il 2 febbraio 2019. Mentre sta facendo colazione si rende conto che la sua mano non risponde più ai comandi. Sembra abbandonata accanto al suo corpo. La afferra con le altre cinque dita e la appoggia sulla gamba. Gli fa male la testa come la sera prima quando su Rai 3 aveva condotto la trasmissione Rabona - Il colpo a sorpresa. Si rende conto che è accaduto un fatto grave, urla il nome della moglie Francesca e poi cerca di dirle qualcosa. Ha le parole in testa ma pronuncia lettere sconnesse. L’ambulanza, di corsa in sala operatoria: ictus e dissecazione della carotide. Andrea Vianello, 60 anni romano tre figli, giornalista, conduttore televisivo oggi Direttore di Rai News24, racconta la sua drammatica storia riuscendo anche a colorarla, oltre che di forza, anche di ironia. Ha deciso di mettere quella forza a disposizione di tutti i pazienti come lui. È appena diventato presidente di ALICe Italia, la Federazione delle Associazioni per la Lotta all’Ictus Cerebrale. E ora, proprio lei che non riusciva più a parlare dopo l’attacco, è diventato il portavoce dei pazienti.

Raffaella Carrà, il lungo addio: la camera ardente in Campidoglio. Pippo Baudo e Renzo Arbore: «Un omaggio all'ultima prima donna»

Che cosa l’ha spinta?

«Così, la storia del singolo diventa, oltre che privata, anche collettiva.

Desidero dare una mano per abbattere il tabù che ancora circonda questo evento improvviso. Ricordiamo che è la prima causa di disabilità in Italia, contiamo 185 mila casi all’anno. Ne so qualcosa e ne parlo senza vergogna».

Lei è stato operato e poi ha dedicato tanti mesi alla riabilitazione, soprattutto alla logopedia. Non riusciva neppure a dire i nomi dei suoi figli, vero?

«Racconto quello che è accaduto perché è un pezzo di vita. Non ho tralasciato nessun dettaglio nel mio libro Ogni parola che sapevo, neppure il trovarsi a non essere in grado di mettere insieme una frase. Io che ho fatto del parlare il mio lavoro. Non ero in grado di scandire i nomi di Maria Carolina, Goffredo e Vittoria, i miei figli. E neppure di farmi capire. Vorrei essere da stimolo per chi ha avuto la mia stessa patologia».

Ci aiuta a capire i pensieri e le emozioni che l’hanno attraversata quando ha aperto gli occhi e ha cominciato a rendersi conto di quello che era accaduto?

«Prima di tutto la felicità di essere vivo, poi l’angoscia di non avere le parole. Poi la paura di non farcela e la speranza che mi arrivava dai medici. Una vera rivelazione la sanità pubblica. Al policlinico Umberto I di Roma il professor Simone Peschillo mi ha salvato la vita e alla Fondazione Santa Lucia ho ricominciato a muovermi e a parlare. Ancora faccio logopedia».

Si racconta con tono ironico, è sorprendente...

«Sì, preferisco raccontarmi con ironia mai con rabbia. Vorrei far capire, senza vittimismo, che non è facilmente accettabile parlare e rendersi conto che nessuno capiva. Nella mia testa sapevo bene quello che volevo comunicare, da un nome a un pensiero, ma le parole non uscivano».

Ha parlato di vergogna, i pazienti che hanno avuto l’ictus si vergognano?

«Ne ho conosciuti tanti, abbiamo condiviso le nostre esperienze. E mi sono reso conto che molti evitano di raccontarsi, lo stigma ancora resiste. Con il tumore ce l’abbiamo fatta, ora tocca all’ictus».

Quali altri tabù vuole far saltare?

«Molti pazienti credono l’aver avuto la malattia sia colpa loro. Una sciocchezza. E poi vorrei far capire a tutti che , pur danneggiate, queste persone restano con la stessa anima. Ce la faremo» Ha cambiato le sue priorità dal 2 febbraio 2019? «Certo, di tempo per pensare ne ho avuto tanto. Per rendermi conto che mia moglie è stata straordinaria nel chiamare in tempi brevissimi l’ambulanza. Per guardare con occhi diversi i miei figli. Per invertire, appunto, l’ordine delle priorità. Per rendermi conto che posso aiutare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA