Coronavirus, Galli: «In corsia i pericoli più grandi perché si amplifica il contagio. Ma l’Italia è all’avanguardia»

Coronavirus, Galli: «In corsia i pericoli più grandi perché si amplifica il contagio. Ma l’Italia è all’avanguardia»
di Francesco Malfetano
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Venerdì 6 Marzo 2020, 00:45 - Ultimo aggiornamento: 09:44

«Gli ospedali possono agire da cassa di risonanza ma abbiamo regole e protocolli che funzionano e che sono in grado di garantire che non sia così». Massimo Galli, professore ordinario di Malattie Infettive all’Università Statale di Milano e primario dell’Ospedale Sacco del capoluogo lombardo, è in prima linea nella lotta quotidiana contro il Covid-19, nel tentativo di offrire le cure migliori a più pazienti possibili. A preoccuparlo però, ovviamente, c’è anche il contenimento dei contagi, non solo all’esterno ma anche all’interno delle strutture sanitarie. 

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Professor Galli in questo momento con scuole chiuse, assembramenti vietati e manifestazioni sospese, gli ospedali potrebbero rischiare di trasformarsi in uno snodo determinante per la diffusione del coronavirus infettando medici ed infermieri. È così?
«L’epidemia è stata senza dubbio amplificata da un ospedale ma è bene precisare che è iniziata chiarissimamente fuori dalle strutture sanitarie. Quando è arrivato il primo paziente nessuno poteva riconoscere il virus, il personale sanitario non aveva alcun motivo per pensare di essere davanti a questo tipo di contagio. Ma in generale sì, le strutture sanitarie possono agire da cassa di risonanza per la diffusione del virus, per questo bisogna stare molto attenti». 

Ovviamente gli operatori sanitari sono più esposti al contagio.
«Certo che sì. Per capire il pericolo della situazione, La Sars nel 2003 ha contato 8098 casi, di questi 1798 erano operatori sanitari (più del 20% del totale ndr). E attualmente ci sono almeno 3mila tra medici e infermieri che già risultano essere stati contagiati in Cina». 

Invece oggi qual è situazione in Italia? C’è una cifra che definisca il numero di contagiati tra il personale?
«Per quanto riguarda l’Italia in questo momento non è possibile stabilire quanti medici o infermieri abbiano contratto il virus. Ciò che so con certezza è che non ne abbiamo riscontrati nel nostro ospedale. Ma questa è un’eventualità di cui quasi preferisco non parlare, sarebbe terribile. Non credo nella scaramanzia ma speriamo continui così».

Il pericolo è alto quindi. Si sta facendo abbastanza per limitare i rischi?
«Innanzitutto bisogna comprendere che si tratta di una malattia per cui bisogna stare molto attenti. Ma per trattare questo genere di pazienti abbiamo regole e protocolli che funzionano come utilizzare tutti i dispositivi individuali di protezione. Si tratta dell’unico modo per evitare che il personale sanitario venga infettato ed evitare il peggio. Qui ci stiamo dando molto da fare come nel resto delle strutture. In questo momento tutta la sanità italiana è sottoposta a un grandissimo stress e dobbiamo essere consapevoli che siamo fortunati perché ci troviamo in una delle aree più avanzate d’Europa a livello sanitario». 

Si è molto parlato della carenza di mascherine e altri dispositivi di protezione, al punto che sembrava potessero mancare anche nelle dotazioni e degli ospedali. È accaduto?
«In realtà non abbiamo avuto, se non per brevissimi momenti, problemi seri di approvvigionamento dei materiali. E anche oggi stiamo tenendo botta in una situazione che è difficile per noi come lo è per molti altri ospedali. Noi poi siamo preparati da anni per questo tipo emergenze anche se nessuno poteva premunirsi o immaginare un’epidemia su questa scala. Da tempo avevamo messo per iscritto una serie di piani siamo in grado di poter adeguare la nostra risposta».
 

 
 

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