Errori dei medici, Anelli: «Depenalizzarli ferma l’addio dei medici»

Il presidente degli Ordini: «La medicina difensiva viene addirittura pubblicizzata. Sì alle case di comunità, ma servirebbero 30 miliardi per stipendi e collaboratori»

Errori dei medici, Anelli: «Depenalizzarli ferma l’addio dei medici»
di Graziella Melina
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Lunedì 10 Aprile 2023, 21:39

Sulla depenalizzazione del reato per gli errori medici, Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo) è netto: «È un primo grande passo perché si possa avere maggiore attrattività nella nostra professione». Però non basta: «perché si avvii la riforma, bisogna trovare maggiori risorse per il personale. Altrimenti anche le case di comunità sono inutili». 

Partiamo dalla depenalizzazione annunciata dal ministro della Salute Orazio Schillaci. Cosa ne pensa? 
«Il ministro sostanzialmente riprende un tema molto caro ai medici, ossia provare a dare una risposta al profondo disagio che i professionisti vivono oggi.

Spesso vengono additati come strumenti per avviare i procedimenti di risarcimento danni fatti da una serie di società in cui sono coinvolti anche avvocati che, con modalità talvolta non sempre molto lecite, spingono i cittadini ad avviare il procedimento penale nei confronti del servizio sanitario nazionale. Si tratta di pratiche non sempre aderenti alle norme di legge e che ci hanno portato nel passato molto spesso a fare segnalazioni al consiglio nazionale forense». 

A cosa si riferisce? 
«Nel processo penale le indagini sono a carico dello Stato; il che significa che il cittadino non deve anticipare le risorse per tutti i rilievi di carattere tecnico di ufficio o di parte. Questi atti vengono poi utilizzati sul piano civilistico per chiedere il risarcimento del danno biologico eventualmente subito: diventa così una specie di escamotage per ridurre i costi come parte civile che si costituisce contro il ssn. Non dimentichiamo che buona parte delle cause penali vengono archiviate perché non ci sono i presupposti, però nel frattempo i rilievi e le indagini fatte valgono sul piano civile». 

Ma quanto è diffusa la medicina difensiva? 
«Non solo è molto diffusa ma è addirittura pubblicizzata: nell’epoca pre-covid abbiamo chiesto una legge che ne vietasse la pubblicità. È chiaro che nessun medico svolge la propria attività pensando di fare un danno al paziente. Ed è ovvio che statisticamente nel momento in cui si affronta un intervento, vi sono situazioni imponderabili per cui è possibile che si possa avere un danno, che deve essere assolutamente risarcito, anche se non voluto dal medico. Ma in queste condizioni, con il rischio di un processo penale, qualsiasi atto medico viene svolto mettendo in crisi profonda tutta l’attività di assistenza. Il che significa che ogni medico cerca di trovare tutte le modalità per poter dire: ho fatto il necessario e anche oltre, perché nessuno domani possa trovare il minimo appiglio per dire il contrario». 

Non si rischia però che si riducano gli esami diagnostici? 
«Assolutamente no. Togliendo l’aspetto penale rimane comunque impregiudicato il diritto del cittadino di ottenere un risarcimento dell’azienda sanitaria. Da parte sua, però il medico tornerà ad avere una maggiore serenità e l’attività verrà svolta in maniera più adeguata. Non dimentichiamo che il rischio del reato penale è una delle cause che porta al disagio e quindi alla fuga dal ssn». 

La depenalizzazione è sufficiente per frenare la fuga dei medici? 
«È un primo grande passo, ma non basta. In questi ultimi anni si sono avviate diverse soluzioni. Da una parte è stato aumentato il numero di borse, nei prossimi 5 anni avremo in Italia circa 60mila specialisti in più. Un’altra strada importante e urgente è quella di definire contestualmente per legge l’atto medico. Questo aiuterebbe sotto il profilo civilistico e penale ad affrontare una serie di questioni giudiziarie tuttora indefinite». 

Cosa pensa delle case della comunità? 
«Dovrebbero rientrare in quel progetto di riforma del servizio territoriale che è rimasto a metà dopo il cambio del governo. Se la riforma si avvia puntando sul potenziamento delle professioni sanitarie, le case possono essere utili. Il vero problema è che mancano 30 miliardi di euro per pagare gli stipendi ai professionisti che devono venire a lavorare sul territorio. E mi riferisco non solo ai medici, ma anche ai collaboratori di studio e agli infermieri. Questi sono i presupposti indispensabili per organizzare almeno un micro team. Se non si trovano le risorse, la medicina territoriale non potrà ripartire». 

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