Coronavirus, l'infettivologo Roberto Cauda: «Il numero così elevato delle vittime figlio di quando l’Italia era ancora aperta»

Roberto Cauda
di Michela Allegri
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Martedì 31 Marzo 2020, 13:46

Il trend positivo si conferma: la percentuale di aumento dei casi di contagio di coronavirus arriva al di sotto del 5 per cento. «Si inizia a vedere una piccola luce alla fine del tunnel», spiega il professor Roberto Cauda, infettivologo del Policlinico Gemelli di Roma. Ma è ancora presto per pensare di riaprire il Paese: «Questa è una pandemia che non ha precedenti nella storia, ora servono rigore e buonsenso». 

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Come commenta i dati diffusi dalla Protezione Civile? 
«I dati non vanno male, sono in linea con i trend dei giorni passati. C’è una riduzione globale nel numero dei contagi, che arriva al di sotto del 5% rispetto ai giorni precedenti. L’aumento dei casi prosegue, ma diventa sempre più contenuto. Il famoso picco di cui tanto si parla non dovrebbe essere lontano. Raggiunto quello, la curva dovrebbe assumere l’andamento di un plateau: prima saliva dritta, ora inizia leggermente a deflettere, dopo il picco l’aumento sarà sempre più contenuto. Ma questo non significherà che i casi arriveranno allo zero. Quindi sarà fondamentale mantenere comportamenti rigorosi». 

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E i dati sui pazienti in rianimazione? 
«C’è stata una flessione nei ricoveri, anche se il numero di pazienti in rianimazione resta alto. Ma dipende dal fatto che in questi casi i tempi di dimissioni e di guarigione non sono immediati, si valutano in più giorni, addirittura settimane. È una coda di quello che è avvenuto prima della chiusura del Paese, e la stessa cosa vale per il numero dei morti, purtroppo ancora elevato. I dati raccontano quello che è avvenuto nei giorni passati».


Il numero dei nuovi ingressi in ospedale è diminuito? 
«Sì, ed è un dettaglio importantissimo. Il numero dei nuovi ricoveri è diminuito anche nelle regioni più colpite». 
 



Quindi le misure di contenimento stanno funzionando? 
«Il trend positivo è il frutto della chiusura, un risultato che stiamo iniziando a vedere a due settimane di distanza. L’avere chiuso una nazione è stata una scelta dolorosa, ma necessaria». 

Per quanto tempo sarà necessario mantenere queste misure? 
«Impossibile fare previsioni a lungo termine. Ci sono modelli matematici che parlano di un mese di aprile ancora difficile, con una chiusura necessaria, e dicono che se i numeri continueranno ad assisterci sarà possibile una lieve riapertura, con uno spiraglio più ampio per maggio. Ma la situazione è mutevole e deve essere analizzata giorno per giorno. Oggi assistiamo ad un progressivo avvicinamento al picco, che non significherà tornare tutti liberi, ma che indicherà il raggiungimento di un importante traguardo. Abbiamo segni positivi rispetto a 15 o 20 giorni fa, ma non bisogna pensare di essere fuori dal tunnel: iniziamo a vedere appena la luce».
 
Quali i rischi più concreti? 
«Il problema sono gli asintomatici che, senza saperlo, alimentano la malattia. Se non usciamo, se abbiamo poche occasioni di vederci in gruppo, se portiamo la mascherina, siamo sulla buona strada. Il problema degli asintomatici si apprende giorno dopo giorno: dovrebbero essere meno contagiosi rispetto a chi ha sviluppato i sintomi, ma non è ancora stato dimostrato». 

Ci sono state 6.000 denunce nelle ultime 24 ore, sono usciti di casa anche soggetti positivi.
«È un numero elevato, qui si gioca la credibilità del Paese. La gente deve capire che non stiamo scherzando, che è una pandemia importante. Di fronte a una minaccia così forte bisogna dare risposte forti. Per questo penso che le sanzioni e le denunce siano strumenti di deterrenza che devono essere messe in atto, perché questi atteggiamenti rischiano di vanificare i sacrifici di milioni di persone che stanno a casa».
 

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