Michela Andreozzi: «Sorelle di vita, basta giudicare. Accettiamo le scelte altrui»

Michela Andreozzi: «Sorelle di vita, basta giudicare. Accettiamo le scelte altrui»
di MICHELA ANDREOZZI
5 Minuti di Lettura
Sabato 28 Gennaio 2023, 14:09

LA LETTERA

Lo stile perfetto, le regole per essere sempre eleganti, ecco come dimostrare 10 anni di meno, giovani e belle con un clic... E che strazio. Non c’è scampo. Se sei donna, vagamente matura, almeno come età anagrafica, non ci sono altri messaggi... E invece.. poi prendi un aereo e voli in un Paese cosiddetto emergente e nonostante varie contraddizioni - sì ok alcune indossano il velo e a te proprio non va giù - guardi le tue simili e non le riconosci. Non hanno tutte lo striminzito pantalone a sigaretta che termina giusto un dito sopra la caviglia, naturalmente senza calzino, per sfoggiare il decolleté nero, possibilmente con suola rossa. Non hanno il golfino cachemerino strettino coloratino che fa tanto jeunes filles en fleurs anche se hai passato gli anta da un pezzo. E non hanno quella meches di via Frattina o viale Parioli che ormai sembriamo sorelle di latte anche se non ci conosciamo. No, ognuno ha il suo abito, i suoi pantaloni, la sua giacca, la sua taglia ...e soprattutto un sorriso rilassato, o Dio sì, su volti più o meno giovanili, consapevoli o no di tanta bellezza. Le riguardi queste donne a volte magre, a volte decisamente in carne, leggere o pesanti, con particolari modaioli o no, e pensi: va beh, è qui che è un Paese fatto così. Ma in un altro Paese mio figlio, anni 20, sempre vestito di nero, marche sportive in primo piano, pecorella in un gruppo di pecorelle di Garbatella e dintorni, manda wa con foto : «Giacca scacchettoni bella, Me lo compro? » Rispondo con faccina occhi sgranati. «Ma’ qui al Nord si vestono così tranqui. Problema: non è che faccio troppo nerd?» Stilosa e nerd, ci schianta l’apparenza, abbiamo pure combattuto per essere libere, per avere il diritto all’autodeterminazione, per lavorare come gli uomini, per superare il gender gap e trasmetterlo ai figli maschi per poi entrare così mature, anche d’età, nel gruppone delle pecorelle romane e non rimanere fuori dalle gabbie a fare le sfigate. Ma davvero? E allora senti cosa fo, sì Stefano Rosso, mi rimetto un cappello coi fiori che mi piaceva tanto e che mi bocciavano perché sembravo Mary Poppins e al diavolo tutti. Sei con me? Dimmi di sì.

Maria Silvia P., 62 anni, Roma

LA RISPOSTA DI MICHELA ANDREOZZI

Cara Maria Silvia, mi dispiace ma non sono con te.

Hai ragione, siamo metaforicamente accerchiate da clickbait che ci rimandano ad articoli, storie o tutorial su come apparire meglio, più toniche, più giovani, più belle. Non credo però che il martellamento pubblicitario sia una prerogativa della nostra generazione: semplicemente, i social hanno preso il posto dei Caroselli…con un po’ di chirurgica precisione in più: io sono costretta a bonificare regolarmente la posta perché nella casella dello spam mi finiscono ormai promozioni di ogni genere, dai cerotti per coprire i capezzoli sotto alle trasparenze, alle app per modificare le foto, agli adesivi per dentiere. A cavallo tra gioventù e rassegnazione, insomma, un po’ come me. D’altronde, l’algoritmo ne sa una più del diavolo. La società ci studia, ci definisce, ci riunisce in gruppi e sottogruppi a cui, ripeto, hai ragione, dovremmo sottrarci. Ma questa omologazione che tu soffri non è soltanto una trappola sociale. È un istinto umano. Nasce durante l’adolescenza da una esigenza identitaria, per sentirci parte di qualcosa, di qualcuno. Da sempre. Tutto sommato, omologarsi e poi distinguersi è sempre stato parte del processo di crescita. Siamo state suffragette e figlie dei fiori, parioline e paninare; oggi le ragazze sono stilose o nerd, ma poi si diventa inevitabilmente, semplicemente donne. E non credo che questa esigenza di catalogare e catalogarci avrà una fine. È vero, bisogna uscire da questa trappola quando giudica il nostro valore a seconda della classe sociale a cui apparteniamo, al brand che indossiamo, all’età, al reddito. Ma per il resto, non riesco a vedere un altro lato negativo dell’essere parte di un gruppo. A volte abbiamo bisogno di conforto, riconoscibilità, vogliamo restare nella nostra zona comfort e assomigliare a qualcuno che ci piace. Viviamo in un Paese libero, dove possiamo scegliere di essere sorelle anche se non ci conosciamo. Lo siamo. C’è qualcosa di profondamente democratico nell’essere simili. Contestualizziamo, sempre. Moltissime culture omologano a forza, impedendo alle donne, per esempio, di mostrare i capelli. Per qualcuna di queste donne, girare senza copricapo è una scelta rischiosa, ne va della vita. Tutto sommato, siamo pecorelle fortunate. E poi perché distinguersi dal gregge dovrebbe significare essere migliori del gregge? Vivere la nostra unicità non implica giudicare le scelte degli altri: mettere un cappello a fiori da Mary Poppins non è un gesto più rivoluzionario che indossare décolleté con la suola rossa. In che misura la scelta di un cashmerino finto giovane potrebbe mettere in crisi il tuo desiderio di autonomia? E perché i gusti di tuo figlio dovrebbero essere sbagliati? La tua libertà non vale più della sua. Il diritto alla autodeterminazione, alla libertà di cui parli non possono essere privilegi a senso unico. A me piace l’idea di appartenere a un mondo in cui posso difendere la libertà di una scelta lecita che magari non farei. Se smettiamo di classificare gli altri non sentiremo più il bisogno di essere diversi. Personalmente, non riesco o forse non ho più voglia di avere una opinione su tutto e su tutti, forse perché nessuno merita il nostro giudizio, che non è mai generoso. Probabilmente perché molta parte della mia vita dipende dal gusto degli altri: se quello che faccio non piace, ad esempio, il mio lavoro va in malora. E così, se e quando posso farlo, mi astengo dal catalogare e classificare. Dovremmo imparare ad accettare le scelte altrui anche quando turbano il nostro senso estetico.

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