Una passione medievale (4)

di Roberto Gervaso
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Venerdì 22 Giugno 2018, 09:53
Abelardo, abbiamo visto, si ritirò in convento; Eloisa diventò monaca. I due protagonisti fecero di necessità virtù, sacrificando Venere a Minerva, il godimento della carne all'elevazione e all'appagamento dello spirito. Sbocciò un nuovo idillio che in un poetico scambio epistolare, trovò le espressioni più alate e struggenti.

Lei, con parole magnifiche, gli ribadì la profondità e l'intensità di una devozione totale. «Sei legato a me strettamente dalla promessa del sacramento nuziale e per questo è ancora più grande il debito che hai verso di me ma sei ancora più indebitato con me perché io sono sempre stata legata a te da un amore senza limiti. Sai quanto persi perdendo te e quale enorme tradimento, noto ormai ovunque, sottrasse a me non solo te, ma anche me stessa il dolore per il modo in cui dovetti rinunciare a te fu incomparabilmente più grande di quello che provai per averti perduto. Quanto più grande è la causa del dolore, tanto più grandi devono essere i rimedi per consolare».

E questi rimedi soltanto lui, Abelardo, poteva trovarli perché «chi fu solo nel causare dolore, sia solo anche nel consolare». Sembrava una rampogna, lo sfogo di un risentimento, mentre era una dichiarazione d'amore: «Sei l'unico capace di rattristarmi o consolarmi, e sei l'unico fra molti che sia obbligato a farlo per me, soprattutto ora».

Eloisa aveva secondato la volontà del filosofo senza tentennamenti né ripensamenti. Al punto che «per te, non ho esitato a perdere me stessa». Ma il miracolo fu la metamorfosi di una esaltazione dionisiaca «in una tale incredibile follia da privarmi dell'unica cosa che desideravo, proprio quell'unica cosa, e senza alcuna speranza di riaverla. Subito, al tuo ordine, mutai la mia vita e la mia anima Eri tu il solo padrone del mio corpo e del mio spirito».

Un abbandono cieco, ma insieme consapevole. «In te ho cercato e amato solo te, Dio ne è testimone Non miravo né a farmi sposare né a farmi mantenere; non volevo soddisfare la mia volontà e il mio piacere Io preferivo essere per te un'amica, una compagna, perfino una concubina, se non ti offendi, o una sgualdrina. Mi sarei annullata di fronte a te, paga soltanto del tuo amore, sarei vissuta nell'ombra della tua grandezza».
La ossessionava la paura, quasi il panico, che Abelardo avesse sospettato in lei un calcolo nascosto e meschino. Ma lo fugò subito con inequivocabile determinazione. E una nobiltà sdegnosa: «Sposare un uomo perché ricco vuol dire vendersi; amare il suo denaro, non lui; e colei che si sposa per interesse merita di essere pagata, non amata».

Sapeva di aver peccato, e non negava né a se stessa né a lui né al mondo la propria colpa. Ma in che cosa questa consisteva e dove risiedeva: «Nelle conseguenze del gesto o nelle intenzioni di chi le compie?».
La risposta era implicita: nelle intenzioni. Ma chi ha il diritto d'incriminare o peggio, di condannare quelle di chi ama? Chi ama davvero non è passibile né di censure né di sanzioni. La sua innocenza è totale, il suo candore assoluto. E questo perché chi ama dona, e chi dona imita e serve Dio. Nessuno potrà mai, in buona fede, negarlo o anche solo mettere in discussione questa meravigliosa forma di altruismo.
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