Il tradimento, a tempo debito, è un'arte

di Roberto Gervasi
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Mercoledì 25 Luglio 2018, 08:52
Il 24 luglio 1943, Mussolini andò a Palazzo Venezia per una riunione straordinaria del Gran Consiglio. Questo pomposo consesso non aveva mai deciso nulla, ma l'aria nel Paese era cambiata (eccome era cambiata!). Faceva un caldo madido e sciroccoso, e i gerarchi, tutti rigorosamente in sahariana, volti abbronzati, sudati, inquieti, si affrettavano verso la sala dove si sarebbe svolto il processo del secolo. L'idea era stata di Dino Grandi, già autorevole ministro degli Esteri e galante ambasciatore a Londra. Era convinto che il Duce fosse ormai spacciato e la guerra perduta. Sperando forse di succedergli, presentò un ordine del giorno con il palese fine di disarcionarlo. La mozione passò, votata anche da Galeazzo Ciano, che al capo doveva tutto: la carriera, le greche, i pennacchi e i galloni di ministro, la moglie Edda. Diciannove gerarchi a favore, otto contro, un astenuto. Il secco commento di Mussolini fu: «Avete provocato la caduta del regime». Riguadagnò, quindi, il tavolo di lavoro, e il telefono squillò, mentre il cucù, ignaro della fatalità del momento, batteva le due e mezzo del 25 luglio. Fuori, il cielo era irto di stelle e l'aria calda e umida. All'altro capo del filo la favorita-idolatra Claretta Petacci.
«Com'è andata?» gli chiese trepidante.

«Come vuoi che andasse» gli rispose accorato lui, la voce fioca, in tono di sconfitta.
«Mi spaventi».
«C'è poco da spaventarsi. Siamo giunti all'epilogo, alla più grande svolta della Storia».
«Ma che hai Benito mio? Non ti capisco».
«La stella si è oscurata».
«Non tormentarti. Spiegami».
«È finito tutto. Occorre che anche tu cerchi di metterti al riparo».
«E tu?».
«Non pensare a me, fai presto».
«Ma se non si sa nulla?».
«Saprai fra qualche ora».
«Sarà una tua idea».
«Disgraziatamente non è così».
«Allora?».

«Fa ciò che ti ho detto. Altrimenti potrebbe essere peggio» e riagganciò.
Per Claretta fu come se un fulmine le avesse incenerito il cuore, una lama straziato le viscere. Scoppiò in un pianto dirotto e quella notte non chiuse occhio. Al risveglio si guardò allo specchio. Non si riconobbe. Sembrava invecchiata di vent'anni. E lui meglio non farsi vedere dall'amante che, seduto in cucina accanto a Rachele, parlava da solo, sorbendo un beverone di malva e tiglio. Si girava e rigirava i pollici come se non avesse niente da fare. In realtà, non sapeva cosa fare. Fuggire? Avrebbe fatto la figura del pusillanime. Restare? Avrebbe fatto quella del velleitario inerme. Pensò che la cosa migliore fosse chiedere udienza a Vittorio Emanuele III re sciaboletta che, maestro della simulazione, gli aveva sempre manifestato simpatia, spiegargli quel che era successo e farsi rimettere in arcione. Rachele gli ricordò che il sovrano, nell'intimo un intimo schivo e impenetrabile lo detestava. Se si fosse presentato al suo cospetto, l'avrebbe prima perfidamente destituito, poi fatto arrestare. Meglio lasciare perdere, fare una tonificante cavalcata nel parco di villa Torlonia, una partita a tennis con il giardiniere, godersi un film con Stanlio e Ollio nella saletta di proiezione privata.

Replicò, sconsolato e stizzito, che il sovrano non gli avrebbe negato il suo aiuto: Rachele gli ripeté che dei Savoia non c'era da fidarsi. Era, come si dice a Roma, un gran paravento, che finalmente si sarebbe vendicato delle umiliazioni subite. Ben, come lo chiamava la favorita, fece di nuovo orecchio da mercante. Andò in guardaroba, indossò il più bel doppiopetto, scelse con cura la cravatta e mise in testa l'immancabile bombetta, infilò i guanti e uscì con la scorta, diretto a villa Savoia, dove giunse alle diciassette meno qualche minuto. Il Re lo ricevette con il volto cupo e la mano gelida. Lo fece bruscamente accomodare nel suo studio, senza nemmeno offrirgli una poltrona, una sedia, un cordiale, come si usava allora. Benito, cercando, senza riuscirci, di darsi un contegno, di farsi coraggio, di mostrarsi disinvolto, esordì con una patetica banalità: «Vostra Maestà saprà sicuramente della ragazzata di ieri notte». «Macché ragazzata» rettificò astioso re sciaboletta. «Maestà replicò Mussolini il voto del gran Consiglio non ha alcun valore». «Questo lo dice lei» ribatté contrariato il sovrano. «Lo dico io che l'ho creato e lo presiedo» si difese Benito. «Caro Duce tagliò corto il Savoia le cose non vanno più. L'Italia è in tocchi». Il fondatore dei fasci capì che aria tirava, non insisté e s'avviò verso l'uscita della villa. Qui fu fatto salire su un'ambulanza e portato primo alla caserma Podgora, poi nella sede degli allievi carabinieri di via Legano e chiuso in una stanza, dove troneggiava un sofà. Non aveva sonno, non aveva bisogno di riposo turbato dai già foschi presagi, forieri di orrifici incubi, gli venne recapitato un messaggio del già designato capo del Governo Pietro Badoglio. Gli diceva di stare tranquillo. Non si trattava di un arresto, ma di una semplice precauzione per difenderlo da un serio complotto. Come al solito, mentiva.
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