Seneca: medico dell'anima

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Mercoledì 4 Luglio 2018, 13:46
Togliendosi la vita per ordine di Nerone, dopo la scoperta della congiura pisoniana contro l'imperatore, Seneca le oppose il più eroico sugello. Le scene madri, i beaux gestes plutarchiani s'intonavano magnificamente, stavolta anche tragicamente, alla sua fama di saggio, preoccupata forse più del giudizio dei posteri che dei contemporanei.
In quel momento supremo, a tu per tu con la Parca Atropo, il vecchio filosofo stoico, fatto appello alle sue doti più alte, le spinse fino all'olocausto.
Morì come, in fondo, non era vissuto, né avrebbe potuto, o voluto, vivere. Per oltre mezzo secolo aveva predicato la virtù, ma solo negli ultimi anni, esule dalla Corte, inviso al suo principe, lontano da tutto e tutti, aveva trovato tempo di praticarla.
Le lezioni, finché era stato vicino a Nerone, le aveva impartite agli altri, che non sempre ne avevano fatto tesoro. Lui, prigioniero di quella Ragion di Stato al vero o presunto bene collettivo sacrifica ogni morale, eluse con eleganti distinguo gli imperativi della coscienza.
Aveva pronunciato bellissimi sermoni, ma lui non ne aveva mai applicato l'aureo e scomodo messaggio. A riscattarlo fu la morte socratica, cui non mancò nemmeno la cicuta.
La regia scrive Traina fu perfetta: L'imperturbabilità del condannato, il conforto degli amici in lacrime, i discorsi edificanti, le ultime parole famose, la libagione al dio liberatore. Unica variante: il filosofo si congedò dal mondo, quel mondo in cui s'era immerso e che tanto aveva amato, dopo un'agonia atroce che lo fece ricorrere al veleno, scelta forse non casuale. La cicuta lo avrebbe nobilitato come aveva nobilitato il maestro Platone.
L'imperatore perse il più illuminato, ma non disinteressato, consigliere, il suo Mazarino, il suo padre Giuseppe, il suo Kissinger. La Curia, il suo membro più illustre e il suo miglior alleato. La cultura, l'esponente più eclettico e geniale.
Homo novus, l'avevano chiamato, come i vecchi politici repubblicani di oscuri lombi, e mai definizione fu più azzeccata. La sua folgorante ascesa sarebbe stata inconcepibile sotto Augusto, quando le vie del potere, a un provinciale di famiglia equestre erano state precluse e, per far carriera, bisognava essere romani, e di rango.
Con Claudio le cose erano cambiate, tanti pregiudizi erano caduti, tanti veti sciolti. Lo Stato apriva i suoi scrigni, assegnava le sedi più prestigiose, distribuiva le cariche più ambite e remunerative a liberti e provinciali.
Seneca, più ambizioso di quanto convenisse a un discepolo di Zenone e Crisippo, a un uomo che citava continuamente Epicuro, colse al volo, con il tempismo pragmatico di chi guarda il cielo, piedi ben saldi sulla terra. La grande occasione. E quando Agrippina gli offrì di diventare l'Aristotele del figlio, si guardò bene dal rifiutare un incarico che, se assolto con zelo, grazie all'inesperienza del giovane pupillo, gli avrebbe dato un enorme potere.
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