L’amore a prima vista è più l’impulso di un istinto che di un sentimento

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Mercoledì 19 Settembre 2018, 19:23
Francis Scott Fitzgerald non faceva che ripetere, anche con gli sconosciuti: Sono un genio. Lo ripeteva e ne era convinto. Così convinto che si atteggiava a genio, assumendo pose spavalde, sfidando le convenzioni, anche le meno ipocrite, dando giudizi e voti con tono saccente e apodittico che non ammetteva repliche né concedeva attenuanti. Voleva che si parlasse di lui, e il primo a parlarne era egli stesso. Se l'universo aveva un centro, questo centro era lui, sole con una galassia aureolata di satelliti che dal grande astro ricevevano luce, raggi e calore.
Quando si accorse che l'università di Princeton, con il suo mitico pedigree e il suo celebrato prestigio, gli andava stretta, si armò e parti per l'Europa, dove gli eserciti dello zio Sam avrebbero dato man forte a quelli della Triplice Intesa.

Era il 1917, Scott aveva poco più di vent'anni, e non era, a differenza dell'esuberante, sanguigno macho Hemingway, un cuor di leone. Gli mancava il coraggio fisico, ma l'avventura lo eccitava. E, forse, lo avrebbe anche ispirato, come ispirerà l'amico e confidente Ernest. Non compì azioni eroiche e non ebbe encomi e medaglie. Se ne crucciò, ma esporsi a rischi fino a quello, estremo, della vita gli avrebbe impedito di lasciare l'impronta nel mondo. Non era alla gloria delle armi che aspirava. Era a quella letteraria, sacerdote delle Muse, non di Marte. Per essa avrebbe pagato, e pagherà, qualunque prezzo.

Tornò in patria e cominciò la ripida e rapida scalata al Monte Elicona, la marcia verso il successo. Una marcia non scevra di delusioni, ma che nessuno avrebbe contrastato, almeno finché egli fosse stato padrone di se stesso e del suo straordinario, bizzoso talento.
A New York era uno dei tanti americani, e non solo americani, in cerca di fortuna. Trovarla non era facile. Non bastavano né la vocazione né l'ambizione. Nella Grande Mela chi gli avrebbe dato ascolto, chi teso una mano, chi letto un suo manoscritto?

Lasciò il biglietto da visita ai fattorini di sette editori di giornali, offrendosi come reporter. Nessuno gli rispose, ma lui non si perse d'animo. In tasca non aveva il becco di un quattrino e non sapeva come legare il pranzo con la cena. Busso alla porta di un'agenzia pubblicitaria che gli propose di scrivere slogan. Accettò. Novanta dollari al mese non erano molti, ma a letto senza cena non sarebbe più andato.

Di notte, invece di dormire, buttava giù racconti. Non ne vide nessuno pubblicato, ma non si scoraggiò, né l'ispirazione lo abbandonò. Avevo appeso centodue rifiuti alle pareti della mia camera come decorazione. Scrissi trame di film, testi di canzoni, poesie, sketch, barzellette. Alla fine di luglio del 1919 vendetti un racconto per trenta dollari. Ma sentiva che ce l'avrebbe fatta, che alla fine la sua caparbietà sarebbe stata premiata.

Un anno prima, a Montgomery, Alabama, aveva conosciuto Zelda. Quattro anni meno di lui, nata con il secolo, apparteneva alla fine fleur della cittadina del Sud. Figlia di un avvocato e di una donna estroversa e bizzosa, aveva talento, e un carattere forte ed eccentrico. Sapeva disegnare, dipingere, danzare; nuotava come un'ondina, si lanciava da vertiginosi trampolini con l'agilità e l'eleganza di una campionessa olimpionica. Ribelle, anche lei, come Scott, e anche lei egocentrica. Non chiedeva: pretendeva. E se non otteneva, diventava petulante e aggressiva. Voleva essere al centro dell'attenzione, e ci riusciva, grazie anche, e soprattutto, alla sua non comune bellezza, al focoso temperamento, al piglio volitivo la chiamavano baby flapper, maschietta, e il vezzeggiativo frivolamente le si addiceva.

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