Che romanzo la vita. E quanti capitoli

di Roberto Gervaso
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Venerdì 27 Luglio 2018, 19:40
Perché vivere quando il nostro mondo di ieri se n'é andato, e non sappiamo se tornerà? E se anche dovesse tornare, sarà lo stesso? Con i suoi sogni, le sue illusioni, i suoi incanti, le sue magie e malie? E anche i suoi inganni, le sue illusioni, le sue chimere infrante contro gli scogli della vita, le sue asprezze e le sue asperità, i suoi triboli e i suoi travagli? Ma oggi, a 81 anni, posso dire: ho vissuto. Ho vissuto e mi restano i ricordi. Che non si sono mai inaspriti in rimpianti, ma si sono sublimati in quella nostalgia intrisa di delicata e tonificante malinconia che ci consegna alla serenità e alla pace con noi stessi.

La sola che ci fa vedere le cose dall'alto, senza trascinarci troppo in alto, facendoci perdere di vista, per aprirci l'anima ad arcani inquietanti. Quante cose, quante persone, quanti momenti ricordo di quei tempi lontani, alcuni remoti, eppure, in certi attimi - attimi incisi nel cuore - vicini: di ieri, di oggi. Attimi che mi tengono compagnia lungo i fluenti declivi e gli impervi sentieri di quella meravigliosa, affascinante e inquietante avventura della vita. Cos'è rimasto di me di quando - bambino - in grembiule blu e fiocco bianco varcavo la soglia della scuola elementare Manzoni di Torino, mano nella mano di mia madre, a fianco di mio padre, che ho tanto amato, ma che forse non ho amato abbastanza. È rimasto tutto perché la memoria, quando non cede all'oblio, perpetua il tempo e lo rende eterno. Come potrei dimenticare la maestrina senza la penna rossa, ma il lungo tailleur blu, forse confezionato con le sue stesse mani negli anni amari della guerra?

E come potrei dimenticare il maestro Sasso? Sempre, in tutte le stagioni, con il doppiopetto gessato grigio, i capelli striati di bianco, i baffi, con quella sobria dignità, quella affettuosa autorità, quel sabaudo senso del dovere cui tanto devo e che mi accompagnerà per tutta la vita. Poi le scuole medie, la professoressa Foà, giusta e terribile, come devono essere i docenti, didatta straordinaria, che m'insegnò ad amare il latino, la più viva delle lingue morte e, forse, anche la più viva delle lingue vive. Poi il liceo, quindi l'università: laurea in lettere e filosofia. Ed ecco la vita, le sue finestre che si spalancano sulla mia grande, vera, unica vocazione: scrivere, scrivere, scrivere. E poi l'incontro con Indro Montanelli, maestro dei miei maestri, che non si stancherà di ripetermi: scrivi in modo che ti capisca il lattaio, il barista, il netturbino, sii sempre libero, a costo di perdere la libertà. Le catene della mente e dello spirito sono più pesanti di quelle del corpo.

Dogmi e ideologie - ma già me l'avevano insegnato Montaigne e Voltaire sono fraudolenti utopie, ad uso e consumo dei teologi e dei demagoghi. Sii sempre te stesso, non portare mai il cervello all'ammasso, non firmare mai manifesti. Tieniti lontano dai partiti. Un giorno, davanti a un semaforo di via del Corso, mi disse: «Perché non scriviamo insieme la Storia d'Italia?». Un boom strepitoso, 18 milioni di copie. Altro mentore, Giuseppe Prezzolini, esule volontario in America. Lui, amico fraterno di Mussolini, cui aveva aperto le poste de La voce, la più intrepida e cosmopolita rivista culturale del Novecento. A lui devo la scoperta dei classici e l'amore per chi ha vissuto prima di noi e ci ha testimoniato la grandezza di epoche illustri ed eroiche. A cui devo la superba lezione di Tacito, di Tucidide, di Platone e di Seneca, di Machiavelli e di Pascal, di Omero e Virgilio. Grazie classici, che mi avete insegnato e fatto capire la vita, che avete arricchito.

La mia mente e forgiato il mio stile. Ho avuto tutta la popolarità che ho voluto, e l'ho amata. L'ho amata anche troppo. Ho avuto tutto il successo che ho voluto, l'ho amato. Che impostore! E ora? Sono solo, solo con i miei compagni più inseparabili: i Classici. E con pochi, pochissimi amici, che mi sono vicini e mi capiscono, anche quando siamo lontani. Ci basta, per sentirci uniti un flash della memoria, un guizzo del cuore, un dono del sentimento soccorrevole e confortatore. Ed ecco gli affetti. Gli affetti che possono anche fraintenderti e forse tradirti, ma quasi sempre ti sostengono e ti pungolano. L'affetto di Vittoria, che amministra la mia vita, le dà una direzione e un senso. Che vigila sulla mia salute, piuttosto malconcia, che mi nasconde i farmaci, a suo insindacabile giudizio, nocivi, che a tavola mi nega il Nonno Nanni, la nutella e la mortadella, che continua a ripetermi - e me lo ripeterà anche in punto di morte (mio, non suo): «Ma se hai un bel colorito». E mia figlia Veronica, sempre in giro per il mondo e che vedo solo sul teleschermo di Canale 5. E i miei tre nipotini - Tommaso, Jacopo, Leandro - che affettuosamente m'ignorano. E - last, but not least - la canuzza, la nostra, inseparabile Lola, che dorme fra me e mia moglie. La sua fedeltà è commovente. E io la premio azionando lo sciacquone del water. Niente la rende più felice del flusso di cloacina.
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