E ancora: «La morte non reca alcun danno. Perché una cosa porti danno, possa nuocere, occorre che ci sia un danneggiato. Se poi brami tanto una vita più lunga, pensa che di tutti gli esseri che scompaiono dalla vista e ritornano in seno alla natura donde erano usciti, e dove presto riemergeranno, nessuno si annienta. Cessano di esistere, ma non muoiono, e la fine che paventiamo e cerchiamo di allontanare, interrompe la nostra esistenza: non l'annulla.
«Verrà di nuovo il giorno, giorno che molti rifiuterebbero se non rinascessero dopo aver perso ogni ricordo del passato L'uomo è destinato a tornare alla vita, e perciò deve uscirne serenamente Nulla in questo mondo s'estingue ma, con moto alterno, tramonta e risorge. Se ne va l'estate, ma per rifare capolino l'anno dopo. Passa l'inverno, ma riapparirà nella sua stagione. La notte nasconde il sole, ma subito dopo il giorno porta via la notte. Similmente le stelle nella loro rotazione, non fanno altro che tornare dove già sono passate.
«Continuamente una parte del cielo sorge e un'altra sprofonda sotto l'orizzonte. Neppure i bimbi e i dementi hanno paura della morte. È per ciò vergognoso che la ragione sia incapace di darci quella serenità di spirito cui la stoltezza conduce».
Il fatto è che noi, più della morte, ne temiamo l'idea, cui dovremmo, invece, abituarci. Le Epistole non sono che una piccola parte, anche se la più felice e fortunata, della vastissima produzione di Seneca, che spaziò dall'epigramma alla satira, dal dialogo alla tragedia.
Gli Epigrammi sono una settantina, ma la loro attribuzione è incerta. S'ispirano per lo più all'esilio in Corsica cui, abbiamo visto, Claudio l'aveva condannato. A questo imperatore il filosofo dedica la famosa e famigerata satira Apocolocyntosis, o trasformazione in zucca, composta fra il 54 e il 55 d.C.. È uno sberleffo di sapore menippeo. L'autore vuole vendicarsi del castigo ingiustamente inflittogli dal sovrano, dipinto come il tiranno che toglie ai sudditi ogni libertà e condanna illegalmente a morte i propri avversari, anche coloro che sono i più leali.
Le colpe del monarca e i suoi delitti sono efficacemente e umoristicamente riassunti dal Divo Augusto, ostile all'ammissione di Claudio nell'Olimpo: «Quest'uomo che a voi, Padri coscritti, sembrava incapace di far male a una mosca, uccideva con la stessa facilità con cui un cane alza la gamba».
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