Il genio se vero genio è sempre precoce

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Mercoledì 19 Settembre 2018, 19:16 - Ultimo aggiornamento: 19:20
L'America degli anni Venti, Trenta, Quaranta è stata l'Eldorado del cinema, della musica, del teatro, del jazz, della letteratura.
A quale scrittore l'aurea palma?
Il pantheon è immenso e scegliere la nicchia di proscenio più degna del primato è un compito che sfiora l'azzardo e rischia la taccia di soggettività. Dos Passos fu l'esempio di uno stile inimitabile, magistrale, lampeggiante come un flash e angosciante in un fandango di pillole concitate. Hemingway fu un artista colto e cosmopolita, classico e moderno, un personaggio spavaldo e avventuroso, un picaro temerario. Negli ultimi anni, sprofondato nell'Erebo della depressione, suicida come il padre, lo zio, la nipote.
Francis Scott Fitzgerald, il più originale, il più problematico e sregolato, fu uno speleologo dell'Io, un gaudente inquieto, un permaloso narciso, un patetico esibizionista, lui e la moglie Zelda Sayre, baciato dalle Muse e dannato dall'alcool.
Fernanda Pivano amica e, forse, non solo amica, di Hemingway, traduttrice insuperabile dei capolavori letterari del Novecento americano, giudica Fitzgerald il romanziere più emblematico e geniale di quella stagione d'oro. Un giudizio che anche noi toto corde condividiamo.
La vita di Francis Scott e Zelda fu strepitosa e disperata, un amore grande e tragico. Grande perché autentico. Tragico perché autodistruttivo, fino all'atroce espiazione spirituale.
Come s'incontrarono e dove, i futuri idoli della società mondana d'Oltreatlantico? Non fu un colpo di fulmine, almeno per Scott. Zelda gli piacque, ma tutto sarebbe finito lì se non si fossero rivisti. Lui era bello, bellissimo. E bella, bellissima era lei. Nelle vene di Fitzgerald scorreva sangue irlandese, ma era americano, nato a St. Paul, Minnesota, il 24 settembre 1896, in una famiglia timorata di Dio e di solidi principi. Il padre era un uomo d'affari. Il contraccolpo di un crack finanziario aveva lasciato il segno sull'undicenne Scott. Un adolescente inquieto e ribello, che amava lo studio e non praticava lo sport, o solo se non poteva farne a meno. Pieno d'idee, aveva un acuto spirito d'osservazione, un gusto estremamente critico, una mente scettica.
L'Università la fece a Princeton, dove conobbe un monsignore cattolico, che lo iniziò alla letteratura, spalancandogli le porte di quegli ambienti colti alla moda che favorivano le carriere e consacravano le reputazioni. Scott cominciò a sentirsi un eletto, un predestinato, che avrebbe fatto grandi cose, e le avrebbe fatto in fretta, prima e meglio degli altri.
Era pieno di sé e aveva le idee chiare. Avrebbe sfidato il mondo, anche quello che per un pregiudizio di casta lo snobbava. E i wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti) non lo ammettevano nei loro circoli e nelle loro case perché escluso dal gotha che aveva, la sua mecca nel New England.
Reagiva con malcelata indifferenza e con il sarcasmo minaccioso di chi, un giorno non lontano, avrebbe abbattuto quelle supercigliose barriere sociali. E non con un matrimonio ben combinato (e quanto difficile!), ma con il talento che seduce e conquista. Gliela avrebbe fatta pagare ai bramini di Boston e Philadelphia perché i suoi romanzi li avrebbero letti anche loro. E, dopo averli letti ed esserseli goduti, lo avrebbero ammesso nelle loro ville esclusive, nei loro inaccessibili fortilizi mondani. Che rivincita!

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