Dall'ethio-jazz di Mergia al diciottesimo album dei Simple Minds, fino a Le cose di Zibba

Hailu Mergia
di Fabrizio Zampa
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Lunedì 12 Febbraio 2018, 09:47 - Ultimo aggiornamento: 5 Marzo, 14:55
Hailu Mergia – Lala Belu
 
Hailu Mergia, 72 anni, viene dall’Etiopia, più precisamente da Debre Berhan, nella regione Āmara (città che è stata la prima capitale del paese africano, a 120 chilometri da Addis Abeba), ed è un leggendario pianista, tastierista e fisarmonicista che ha creato la storia di quello che negli anni ’70 venne chiamato ethio-jazz, un affascinante mix di improvvisazione,  funk, ritmi e sapori africani e parecchi altri ingredienti. La sua storia, come capita spesso per altri geniali musicisti, sembra un film: era famoso in Etiopia, che lasciò nel lontano 1981 per emigrare negli Stati Uniti, più precisamente a Washington D.C., dove all’inizio non riuscì a trovare un locale nel quale continuare a suonare, al punto che per qualche anno è sopravvissuto facendo l’autista di taxi (lavorava soprattutto al Reagan Airport, e ancora oggi ogni tanto lo fa, quando non è in tour) ma senza mai smettere di esercitarsi e di comporre brani. A un certo punto il mondo della musica americana si è accorto della sua bravura e via via sono nati album come Hailu Mergia & His Classical Instrument (del 1985) e Yewedeke Abeba (1998),  nei quali Hailu, nonostante la sua età non più giovane, ha anche usato l’elettronica, i sintetizzatori, le drum machines e così via. Dal 2013 non ha inciso niente, anche se l’etichetta Awesome Tapes From Africa ‎ha ripubblicato i precedenti album in versioni rimasterizzate (al completo di due dischi dei tempi dell’Etiopia, Tche Belew e Wede Harer Guzo), ma poche settimane fa è finalmente uscito il nuovo cd Lala Belu, in questi giorni disponibile anche in Italia.
Con il contrabbassista Mike Majkowski e il batterista Tony Buck, nel classico trio, Mergia l’ha registrato a Londra, e i brani del disco sono soltanto sei, (Tizita, Addis Nat, Gum Gum, Anchihoye Lene, Lala Belu e Yefikir Engurguro) ma lunghi e al completo di quell’inventiva e di quell’energia che sono la sua dote principale. Lo storico musicista  etiope  si muove fra jazz, soul e world music, ha una creatività più che notevole (inutile sottolineare che è nel suo continente che sono nati il blues e tutti i suoi derivati) e vi consigliamo di ascoltare con attenzione (in cambio avrete tante sorprese) Lala Belu. La ragione è molto semplice: ci trovate dentro tutte le radici e tutti gli sviluppi di una musica che di fatto è figlia benedetta della grande Madre Africa. E non vi stupite della modernità e della qualità delle esecuzioni e degli arrangimenti, né del fatto che l’abbiamo scelto fra tanti dischi: è da scoprire con grande soddisfazione.
 

 
Simple Minds - Walk Between Worlds
 
Sono passati quattro anni da quando è uscito Big Music, ma gli scozzesi Simple Minds (li guida come sempre il fondatore e vocalist Jim Kerr, e con lui suonano il chitarrista, tastierista e cofondatore Charlie Burchill, il bassista Ged Grimes e il batterista Mel Gaynor) affrontano il mercato con un nuovo album uscito da meno di una settimana: intitolato Walk Between Worlds (cammina in mezzo ai mondi) è il diciottesimo disco della band, sulla breccia dal 1979, e il suo nocciolo, come dice il titolo, è l'empatia e l’analisi di come questa caratteristica sia così differente tra le diverse persone. La formazione, che ancora oggi continua a restare in equilibrio tra rock, pop, new wave, post-punk e synth pop, prende spunto dal ricordo di un celebre locale per concerti di Glasgow, il Barrlowland, in cui si sono esibiti tutti i grandi artisti della scena cittadina. Suonare al Barrowland era l’obiettivo di tutti i musicisti della città, e Barrowland Star (è uno dei brani del disco, che offre otto titoli nella versione regolare e undici in quella deluxe) racconta dell'orgoglio di un genitore per il figlio che è riuscito a suonare proprio lì, dopo un periodo in cui aveva sofferto di depressione. Altro argomento è la fede: Magic, che apre l’album ed è un altro pezzo autobiografico, parla della magia della musica e della volontà di Kerr, quando aveva 18 anni, di mettere su un gruppo, mentre al centro di Sense of Discovery c’è la saggia voce di un anziano che suggerisce a un ragazzo il modo migliore di comportarsi, su un ritornello ispirato al singolo del 1985 Alive And Kicking.
Per essere in scena da quasi quarant’anni (e diversi brani del disco sono una sorta di riflessione sul tempo che passa) i Simple Minds, come molti altri musicisti e gruppi sopravvissuti a decenni di attività, stavolta sono riusciti a fare un disco che dal punto di vista musicale non guarda al passato ma è più che attuale: gli ingredienti principali vedono nella prima parte del cd un sapore di dance anni Ottanta condito con la giusta dose di punk e nella seconda parte atmosfere più raffinate e un sound ricco, che sfrutta anche una sezione di archi. Insomma, la band di Jim Kerr (che ha 58 anni, ama viaggiare, è innamorato dell’Italia al punto che diversi anni fa ha comprato a Taormina un albergo, il Villa Angela, considera “unico” Franco Battiato e confessa che «in siciliano so soltanto dire minchia») regge bene all’usura del tempo e lo fa, com’è successo nel tour italiano della primavera scorsa, nel modo migliore e con un sound molto attuale. L’album funziona, alla faccia delle previsioni dei più scettici, e nei prossimi giorni la band (che verrà in tour in Italia a luglio: il 3 sarà al Parco della Musica di Roma) lo presenterà ufficialmente in tre date speciali a Glasgow (il 13 febbraio), a Manchester (il 14) e a Londra (il 15), nelle quali prima suonerà i brani del cd, poi verrà intervistata (anche con domande del pubblico) e infine offrirà un viaggio nei suoi hit.
 

 
Zibba – Le cose
 
Sergio Vallarino, ligure di Varazze, 39 anni, in arte Zibba, cantautore e chitarrista, è in scena da vent’anni durante i quali ha fatto di tutto e si è guadagnato tanti riconoscimenti, da un premio Bindi nel 2011 a una targa Tenco nel 2012 per il miglior album (Come il suono dei passi sulla neve) e a un premio della critica a Sanremo 2014, ha scritto per tanti colleghi (Eugenio Finardi, Cristiano De Andrè, Patty Pravo, Michele Bravi, Emma, Zero Assoluto, Max Pezzali, Moreno, Marco Masini, Elodie, Raige, Giulia Luzi, Alexia…), ha già alle spalle sette album (da L’ultimo giorno a Senza smettere di fare rumore, Una cura per il freddo, Muoviti svelto…) e adesso è appena uscito l’ottavo, intitolato Le cose e preceduto dai singoli Quello che vuoi e Quando stiamo bene. Al suo fianco ci sono diversi ospiti, da Elodie a Erica Mou, Chantal, David Blank, Alex Britti, Marco Masini, Diego Esposito, e la definizione più giusta che si può dare di Zibba è che non appartiene a nessuna categoria e al tempo stesso a tante: si muove fra pop e canzone d’autore, fra rock, black music (e a proposito, anche se è ligure la sua vocalità è molto black) e un pizzico di funk, sceglie con attenzione le sonorità giuste, insomma è uno pratico, che sa dove mettere le mani, le parole e le note, come dire una figura che nella musica di oggi non è poi così frequente incontrare.
Ed è anche sincero. «Ho cercato il suono di questo disco attraverso gli ascolti, i viaggi con gli amici a parlare di musica, a cercarla, a sentirla. A trovare ispirazione dalle cose che ti arrivano addosso, enormi anche se piccolissime, dalla strada come dalle più lontane periferie di internet», spiega. E aggiunge che «ho messo da parte tutto e ho pensato a divertirmi, cercando di capire al meglio le sfumature, la mia voce stessa e il suo ruolo nelle cose che scrivo e scriverò. Fare l’autore e soprattutto produrre per altri mi ha ispirato a lavorare liberamente anche sulle mie canzoni, sul mio disco. La musica vive un momento bellissimo e sono felice di fare musica oggi, di produrre musica oggi, di credere in quello che si sta costruendo e di aver condiviso questo disco con persone che stimo profondamente». Il risultato è un disco di prima categoria, pesato bene, piacevolissimo da ascoltare, nel quale la fusione fra la sua voce e quella dei tanti ospiti è frutto di una scelta intelligente e non è fatta a casaccio come succede spesso in tante collaborazioni. I brani sono dodici, da Quello che si sente (che apre l’album) a La traccia che finisce il disco (che nonostante il falso titolo è il penultimo pezzo: lo segue, e chiude davvero, Un unico piccolo istante), e in mezzo Dove si ferma il sole, Le cose inutili, Un altro modo, Sesto piano. Ma se volete qualche precisa selezione perdete tempo: è difficile scegliere il migliore o i migliori, perché è tutta roba buona. Come succede di rado.

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