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Dal giorno in cui in Campidoglio è stato ricevuto il presidente iraniano Rohani, la Venere capitolina che con le mani si copre le pudenda è diventata un'icona, simbolo dell'arte colpita dalla censura sessuofobica. Ma era la statua sbagliata. Quella figura femminile non è mai stata nascosta da pannelli di compensato, per il semplice motivo che Rohani non è dovuto passarci davanti: la Venere si trova nel Palazzo Nuovo, l'incontro con Renzi è avvenuto nel Palazzo dei Conservatori.
Altre sono state le immagini nascoste alla vista della delegazione iraniana: una Venere esquilina, un Dioniso e altre opere ancora, compreso un “Ratto delle sabine” che in realtà è un dipinto di Pietro da Cortona ma che in alcune cronache è stato presentato come “gruppo scultoreo” e addirittura illustrato con la fotografia di un marmoreo omone tutto muscoli e peli che trascina via una ragazza piangente: un capolavoro che nulla ha a che spartire con le sabine e con il Campidoglio, trattandosi del “Ratto di Proserpina” scolpito da Bernini ed esposto alla Galleria Borghese.
Questo per dire che, mentre ce la prendiamo con gli ayatollah, i primi a non voler vedere il nostro patrimonio artistico forse siamo proprio noi. Insorgiamo per l'occultamento di meraviglie di cui ignoravamo persino l'esistenza, ne confondiamo una con l'altra, e fra coloro che si sono indignati chissà quanti hanno mai visitato i Musei Capitolini.
Quanto alla denuncia di un presunto atto di sottomissione alla cultura islamica, anche su quella ci sarebbe molto da discutere. Qualche anno fa a Palazzo Chigi un presidente del Consiglio fece ritoccare un quadro del Tiepolo per nascondere un seno nudo che altrimenti sarebbe spuntato alle sue spalle nelle inquadrature televisive: evidentemente la censura sessuofobica appartiene a pieno titolo alle nostre tradizioni culturali.
pietro.piovani@ilmessaggero.it
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