No, senza industrie non si può

di Pietro Piovani
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Mercoledì 13 Novembre 2013, 23:22 - Ultimo aggiornamento: 14 Novembre, 07:57
Una volta erano tutti scrittori, oggi sono tutti fotografi, domani saranno tutti chef



@lultimovampiro




Sono sempre di più i ragazzi che vogliono fare i cuochi. I dati dicono che alle superiori uno studente su dieci sceglie gli istituti professionali enogastronomici e alberghieri, quasi il doppio di quelli che scelgono il liceo classico. Aumentano inoltre le iscrizioni agli istituti agrari. Il mestiere di chef e quello di agricoltore hanno conquistato una certa popolarità presso le nuove generazioni. Il ritorno ai campi e alle cucine è visto con favore dagli economisti: l'agroalimentare e la gastronomia sono due settori in cui il made in Italy funziona. Se lavorare ai fornelli o lavorare la terra sono attività che hanno assunto un discreto fascino agli occhi dei giovani, la stessa cosa non si può dire del lavoro in fabbrica: gli iscritti agli istituti professionali con indirizzo industriale ormai sono pochissimi, neanche uno su venti. È un fenomeno comprensibile: in televisione si vedono le gare tra chef, ma nessuno ha mai pensato a un format che metta in competizione gli operai. Per gli economisti però questo è un errore, perché al mondo non esiste un solo paese avanzato che abbia rinunciato all’industria manifatturiera. Nel nostro immaginario la parola industria evoca ciminiere fumanti, scarichi inquinanti, dipendenti sfruttati, eppure nel mondo di oggi la fabbrica può essere anche un luogo dove comanda l’intelligenza e dove si garantiscono buone retribuzioni a chi ha le competenze e la giusta formazione.



È un discorso che vale per l'Italia ma anche per Roma, che a suo modo è una città industriale di alto livello tecnologico (vi ricordate quando si parlava della Tiburtina Valley?) e dovrebbe aspirare ad esserlo anche in futuro.



pietro.piovani@ilmessaggero.it