Quel teatro “mangiato” dal Tevere

Quel teatro “mangiato” dal Tevere
di Fabio Isman
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Giovedì 27 Ottobre 2016, 22:34
Era il Tordinona, poi divenne Apollo: fu tolto per erigere i muraglioni. Fu anche prigione di Caravaggio

LA STORIA
La Roma dell'Ottocento era ricca di teatri. Oltre al Valle e all'Argentina, in cui Gioachino Rossini mette in scena le prime, anche il fondamentale Tordinona, poi Apollo, che è sparito: inghiottito dal Tevere, o, per essere esatti, dai suoi muraglioni, per ingabbiarne le piene. Anzi, fra tutti era il più importante. Ne resta una targa sul Lungotevere, che pochi degnano, almeno, di uno sguardo. Al Valle, Rossini esgue «Demetrio e Polibio» (1812); tre anni dopo, «Torvaldo e Doriska»; nel 1817, «La Cenerentola». E all'Argentina, giusto 200 anni fa, il «Barbiere»; l'anno dopo, «Adelaide di Borgogna, ossia Ottone re d'Italia» e il 26 dicembre 1819 «Otello, ossia il moro di Venezia». Al Tordinona, la «Matilde di Shabran», per il carnevale del 1821, diretta da Niccolò Paganini.

IMPRESARI
I tre maggiori teatri della città erano privati. Il Valle, costruito dal nobile Camillo Capranica, già proprietario della sala omonima nel palazzo con il nome del suo casato, ed era sorto nel 1679, con un'opera di Bernardo Pasquini: passa ad impresari famosi, poi ai Negroni e agli Orsini; torna ai Capranica, dura fino al 1881. Diventa deposito di mobili, e cinema fino al 2000. Il Valle, invece, apre nel 1727, come luogo dell'opera. Dal 1685 al 1725, il palazzo (anch'esso dei Capranica) è la prima sede dell'Accademia di Francia. Mentre il Teatro Argentina (del 1723) era degli Sforza Cesarini: ospita 82 «prime» nel XVIII secolo e altre 61 dal 1800 in poi.

L'APOLLO
Il Tordinona/Apollo sorge invece nel 1670, per volontà di Cristina di Svezia. L'edificio, un'antica torre Orsini, prima era l'Annona, e dal Quattrocento al 1657, un famoso carcere: nel 1598, vi fu rinchiuso anche Caravaggio, poi i fratelli di Beatrice Cenci e (una notte, prima di finire a Castel Sant'Angelo) Benvenuto Cellini; quindi una locanda. La prigione era terribile: la «cella della vita» (quella di Cellini), con la segreta «del fondo», in cui finivano gli autori di gravi reati; quella della tortura. Gli impiccati vi venivano esposti alla folla, e un cartello ne indicava soltanto il nome e il delitto. Come teatro, all'inizio di legno, se ne occupa per primo Giacomo d'Alibert, segretario dell'ex regina convertita. Lo adatta ai suoi nuovi scopi, in muratura, Carlo Fontana: l'architetto dei papi cui si devono, ad esempio, il Palazzo di Montecitorio, la Biblioteca Casanatense, la Basilica di XII Apostoli, e la fontane di sinistra a piazza San Pietro. È rifatto nel 1695. A Innocenzo XII Pignatelli, però non piace: lo abbatte tra mille polemiche. Sarà Clemente XII Corsini a farlo riedificare ma appena nel 1733; però, mezzo secolo dopo, va a fuoco. Rinasce nel 1795, con il nome di Apollo; ed i Torlonia, suoi proprietari, lo fanno quindi ricostruire a Giuseppe Valadier (1829). Ospita anche due importanti prime verdiane: il «Trovatore» (1853), il «Ballo in maschera» (1859). Diventa un teatro comunale. Nel 1870, gli viene aggiunto il palco reale; tuttavia, nel 1888 è «giustiziato» in maniera definitiva dalla nascita dei «muraglioni» sul Tevere, che ne occupano lo spazio.

LA MEMORIA
Perché il suo nome fosse perpetuato, l'Istituto delle Case popolari ne edifica un altro, non lontano, che da fine Anni 40 al 1968, diventa il Teatro Pirandello.
Però, ha altre funzioni. E dal 1925, sul luogo esatto dove era, esiste una fontana che è anche una lapide «in memoriam», proprio sulle sponde del fiume. Una fontana/sepolcro. Dalla valva di una conchiglia, l'acqua cade in un sarcofago; e mai, forse, un oggetto fu scelto in modo più opportuno. Fausto Salvatori, poeta e librettista anche di Puccini (suo un Inno a Trieste del 1919, musicato dall'orvietano Luigi Mancinelli), detta alquanto enfatiche parole. Per ricordare che, proprio qui, «foscheggiò Torre di Nona libera»: «Sul teatro demolito passa l'antica strada romana» (che, invece, era nuova di zevva). Evoca le prime verdiane e «il genio di Giuseppe Verdi». Dopo duemila anni di vita, un edificio storico già dell'Urbe poi della città, se ne è andato così.
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