Durante gli scavi e i restauri, più volte vi sono state ritrovate delle statue: nel XVI secolo, quelle di Minerva, Asclepio e Igea con le figlie; la dea aveva un serpente, il simbolo della medicina, e da qui il nome del complesso. Ma, il secolo dopo, vi è stata rinvenuta pure una famosa Atena: subito acquistata dal marchese Vincenzo Giustiniani, e ne riferiamo a parte la storia, parecchio singolare. Poi, due magistrati romani (uno che sta lanciando la “mappa”: l’atto con cui iniziavano le corse dei carri nel circo), con altre sculture, sono invece estratte a fine Ottocento: esposte ai Musei Capitolini.
L’edificio di via Giolitti è assolutamente maestoso, ed era destinato a funzioni di rappresentanza; è tra quelli più ritratti ed eternati nei secoli, da tanti dei maggiori nomi dei dipinti di paesaggio, o dell’incisione: è sempre stato un “topos” di Roma antica. Davanti all’entrata, è una delle tre absidi, forse aggiunte successivamente: è una sorta di nartece; le altre due, sono ai lati. Dentro il tempio, o meglio ninfeo, rimangono tracce dell’originale decorazione della cupola, con mosaici a pasta vitrea, poi ricoperti da uno strato d’intonaco; alle pareti, c’erano lastre di marmo (ne resta la preparazione a malta, per collocarle).
Pure il pavimento era un tempo ricoperto di mosaici marmorei e in “opus sectile”: era perfino colorato; però il dettaglio non si apprezza più. Se il monumento era dei più studiati, nei secoli non è stato, purtroppo, tra i più tutelati e difesi dall’incuria del tempo: nel 1828, è infatti crollata la cupola, poi restaurata verso il 1940; e interventi di consolidamento sono più recenti. Se oggi è sacrificato tra le rotaie della stazione e i binari del tram, in passato è stato assunto come archetipo: Maria Rosaria Barbera spiega che «senza di lui, non ci sarebbe stata la basilica di Santa Sofia ad Istanbul».
È la copia romana, dell’età degli imperatori Antonini (circa fino all’anno 190), di un originale greco eseguito dalla fine del V all’inizio del IV secolo; ve ne sono più esemplari in vari musei del mondo, anche ai Capitolini. Quella del cosiddetto tempio di Minerva Medica ha lancia e sfinge sull’elmo, ed avambracci, di restauro. Il marchese Vincenzo Giustiniani la volle per la sua collezione: la più famosa dell’epoca. Parecchi “grandtouristi” si sono fatti ritrarre, con dietro la sua testa, per esempio da Pompeo Batoni. Diversamente dal resto della raccolta, ai tempi di Napoleone non è requisita; nel 1805 quanto resta di quelle proprietà, passa al re di Prussia, Federico Guglielmo III. La Minerva, no: la compera Luciano Bonaparte e la colloca dove viveva, a palazzo Nunez-Torlonia, in via Bocca di Leone. L’acquista Pio VII Chiaramonti: sarà poi nel Braccio nuovo dei musei Vaticani, voluto da Antonio Canova. Dove, per fortuna e osannatissima, ancora è.
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