Lazio, l'incubo del Pd: senza alleanze alle regionali contro il centrodestra compatto

Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti
di Ernesto Menicucci
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Sabato 5 Novembre 2022, 15:51 - Ultimo aggiornamento: 16:24

Tre partiti, tre candidati, nessuna alleanza. E il rischio, quantomai concreto, di consegnare - dopo dieci anni di governo - la Regione Lazio al centrodestra senza neppure aver davvero combattuto. È l'incubo del Pd, quello che in molti - al Nazareno e non solo - cominciano a paventare. «L'incubo del 25 settembre», come lo definisce un alto dirigente dem, cioè di ritrovarsi senza alcun alleato al fianco contro, invece, il blocco compatto del centrodestra. Nè i Cinquestelle, che Letta e il Pd stanno corteggiando finora con scarsissimi risultati, ma neppure Calenda-Renzi che con i dem - seppur alle loro condizioni, cioè scegliendo il candidato presidente - si alleerebbero pure.

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I VETI INCROCIATI

E' tutto un gioco di veti incrociati (o di triangolo amoroso di una volta) dove chi sta in mezzo, in questo caso il Pd, rischia di uscire con le ossa rotte.

Per questo, più o meno ogni giorno, si rinnovano gli inviti all'unità, specie da parte del presidente uscente Nicola Zingaretti. Che, infatti, sta rinviando quanto più possibile le proprie dimissioni (ora si parla del 10 o 11 novembre) per allontanare, di conseguenza, l'inizio del countdown: dalle dimissioni ufficiali, infatti, le elezioni nel Lazio (a norma di statuto) vanno celebrate "non prima del 60esimo giorno e non più tardi del 90esimo". Quindi, con dimissioni diciamo il 10 novembre, in una finestra che va dal 10 gennaio al 10 febbraio. Anche ieri Zingaretti ha ribadito, rivolto ai cronisti: "Conte e Calenda? Chiedete a loro e poi mi date una risposta... Il Pd è la forza che più di tutte chiede unità delle opposizioni, è tempo che ognuno si assuma le sue responsabilità con gli elettori".

I CALCOLI POLITICI

Il problema è che Pd, M5S e Terzo Polo non giocano la stessa partita. Il Pd vuole mantenere uno degli ultimi feudi che gli è rimasto (poi resterebbero le grandi città, a partire da Roma, e poco altro), mentre M5S e Calenda, da lati opposti, giocano a disarticolare il Pd e il centrosinistra. Così, se il Pd insegue Conte ed è disponibile anche a candidare un "civico" ben visto dai Cinquestelle, Conte non vuole allearsi con il Pd: andare da solo, sondaggi alla mano, ha pagato, e del resto è il Pd ad aver rotto l'alleanza dando in estate il diktat "o con Draghi o ognuno per la sua strada". Mentre, dall'altra parte, Calenda e Renzi sarebbero disponibili ad allearsi con il Pd ma con due paletti molto rigidi: nessun accordo con M5S, per creare un centrosinistra riformista e non progressista; e avanti sul nome dell'assessore alla Sanità Alessio D'Amato. Ma qui sorge l'altro problema. Perché un bel pezzo di Pd, legato soprattutto al segretario regionale Bruno Astorre, D'Amato proprio non lo vuole: "Ci lascerebbero anche Sinistra italiana e Verdi, che andrebbero con M5S", il ragionamento. E, questo gruppo, aveva portato avanti la candidatura di Daniele Leodori, attuale vicepresidente del Lazio. In mezzo, ci sono Letta e Zingaretti, presi fra due fuochi e di fatto bloccati: uno, Letta, è di fatto dimissionario ed ha delegato la questione Lazio ai "locali"; l'altro, presidente uscente, non è riuscito ad impedire che due pezzi da novanta della sua giunta (Leodori e D'Amato) finissero di fatto l'uno contro l'altro armati. E così si torna all'incubo 25 settembre, sempre più dietro l'angolo. Tre partiti, tre candidati (uno del Pd, uno di M5S, uno del Terzo polo), nessuna alleanza. E, come si dice, il quarto - cioè il centrodestra - gode. A quel punto è persino superfluo sapere se il candidato sarà Francesco Rocca della Croce Rossa o un altro. In queste condizioni, vincerebbe anche un Michetti. Che, per inciso, se a Roma si fosse votato col sistema dei collegi uninominali in Parlamento o della Regione Lazio (a turno unico), avrebbe vinto davvero, sfruttando sempre le divisioni del campo avverso.

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