De Vito torna in Campidoglio: «Resto oppure sfiduciatemi»

De Vito torna in Campidoglio: «Resto oppure sfiduciatemi»
di Lorenzo De Cicco
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Venerdì 22 Novembre 2019, 08:05 - Ultimo aggiornamento: 11:40

ROMA È in pigiama, sono da poco passate le 8 di mattina, quando lo chiama il suo avvocato e gli dice che la Prefettura ha revocato la sospensione: «Marcello, puoi tornare presidente». E lui non ci pensa un attimo, chiama il confidente di questi mesi tribolati, Max De Toma, amico di vecchia data e deputato grillino, uno dei pochissimi parlamentari stellati a essergli rimasto vicino, nonostante tutto: «Vieni qui e andiamo insieme, andiamo in scooter. Oggi torno su quello scranno. Ricomincio da dove avevo lasciato». Alla fine opterà per la Fiat 500 di De Toma, perché anche la moglie Giovanna non vuole perdersi la scena.

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E lo accompagna col sorriso a 32 denti quando, alla mezza spaccata, il presidente dell'Assemblea Capitolina, Marcello De Vito, detto la «Sfinge» per quell'aria sempre imperturbabile, torna sulla tolda di comando del Consiglio comunale di Roma. Percorre di nuovo la cordonata del Campidoglio, dribbla la statua del Marc'Aurelio e i fotografi che già l'aspettavano lì sotto. Rientra dall'entrata principale, sale le scalette accanto alla Lupa, passo lento, sembra godersi il momento, otto mesi dopo l'arresto per l'affaire Tor di Valle, per cui è ancora sotto processo per corruzione (il rito immediato inizierà a dicembre), ma che affronterà da uomo libero. La Cassazione, esprimendosi sulle misure cautelari, ha parlato di accuse basate su «congetture ed enunciati contraddittori». E De Vito riparte da qui. All'entrata si ferma solo col vigile di piantone: «É stata duretta, sì. Ora sto bene». Sulla terrazza abbraccia Paolo Ferrara, l'ex capogruppo M5S di Roma ora consigliere semplice, anche lui finito impelagato nell'inchiesta stadio, ma la Procura, per lui, ha chiesto l'archiviazione. Abbraccia qualche assessore di passaggio. Altri rimangono freddi.

Prima di ripresentarsi in Aula, De Vito incontra Virginia Raggi. «Sono rimasti insieme una ventina di minuti, da soli», racconta il deputato De Toma. Lo staff della sindaca prova a ridimensionare: «Solo un saluto in corridoio, normale tra persone civili». Non hanno affrontato il vero nodo: che fare, ora? De Vito resta in maggioranza? Resta nel M5S? Soprattutto: resta presidente sotto processo?
Il vice di Raggi, Luca Bergamo, ha già fatto sapere che «è sacrosanto che torni a svolgere la funzione per cui è stato eletto», ma «se dal processo emergerà la non colpevolezza». E il processo deve ancora cominciare. La linea di Raggi è più cauta: «Bisogna seguire la legge». Insomma, nessuna valutazione sull'«opportunità politica» di tenere alla testa dell'Assemblea della Capitale un politico imputato per corruzione. Una riflessione che invece, più d'uno, nel Movimento capitolino fa.

Tanto che i numeri nel pallottoliere dell'Aula Giulio Cesare vacillano. Enrico Stefàno, M5S, potente presidente della Commissione comunale Mobilità, ex vicepresidente dell'Assemblea dimessosi proprio perché il gruppo grillino si era spaccato sulla revoca di De Vito mentre era in carcere, ieri lo ha dichiarato sia intervenendo in Aula sia scrivendo sui social: «C'è un procedimento penale in corso, con accuse gravi. Il suo ruolo deve essere al di sopra dei sospetti. Noi eravamo quelli che gridavano onestà-onestà, ora i consensi sono in caduta libera». Si unisce alle richieste arrivate dall'opposizione - dal Pd a Fdi - di valutare le dimissioni per «opportunità politica». De Vito accetta la sfida e rilancia: «Se verrà presentata una richiesta di revoca con 24 firme verrà messa in calendario». Messaggio chiaro: se volete, trovate le firme per cacciarmi, cioè la metà dei consiglieri. Pezzi dell'opposizione già si stanno muovendo e strizzano l'occhio ai grillini imbarazzati. Lo stesso Stefàno non chiude: «Vediamo che farà l'opposizione, io sarò coerente». Un'altra consigliera stellata, Monica Montella, gli ha replicato in Aula a muso duro: «Un passo indietro è un'ipocrisia».

«HERI DICEBAMUS»
Non è il rientro morbido che forse De Vito s'aspettava. «Heri dicebamus», dove eravamo rimasti, dice appena si riaccomoda sulla poltrona più alta, dopo il bacio alla moglie, mentre un drappello di fedelissimi e attivisti lo applaude. Dai banchi del M5S invece poche mani si muovono, tanti occhi abbassati e sguardi mesti. «È un piacere e un onore rientrare in quest'aula e ritrovarvi», dice lui. «Ho perso 18 chili, non fumo più», confida nei capannelli coi colleghi. E fa capire di avere le idee chiare: «Resto presidente - ripete ai capigruppo - e resto nel gruppo 5 Stelle». Gli chiedono: rimarrà anche nel Movimento? «Questo é da vedere...». Del resto non si è mai capito che fine abbia fatto l'iter per l'«espulsione» annunciata subito dopo l'arresto da Di Maio, via Facebook. «Marcello potrebbe chiedere il reintegro», confida l'amico De Toma. Con cui De Vito ha scherzato sulle giravolte del Movimento mentre era in carcere e poi ai domiciliari: «Ero rimasto all'alleanza con la Lega, ora vedo che siete col Pd, ma che avete combinato?».

 

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