Roma, raid al Roxy bar, i giudici: «I Casamonica agirono da boss»

Nel cerchio gli uomini dei Casamonica in azione all'interno del Roxy Bar
di di Adelaide Pierucci
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Giovedì 9 Maggio 2019, 11:21

Non un atto da gradassi, ma da boss. I giudici di appello hanno confermato la condanna con l'aggravante del metodo mafioso per tre dei quattro protagonisti del pestaggio al Roxy Bar dell'aprile del 2018. Gli esponenti del clan Casamonica, ripresi dalle telecamere di sorveglianza, avevano preso a cinghiate una disabile e il titolare del locale alla Romanina, il loro quartier generale. Il secondo grado del processo ai fratelli Alfredo e Vincenzo Di Silvio, accusati di violenza privata e lesioni con l'aggravante del metodo mafioso, non modifica le pene: rispettivamente quattro anni e 10 mesi e quattro anni e otto mesi di carcere. Solo per il nonno Enrico, da tempo su una sedia a rotelle, finito a processo per minacce sempre con stile criminale, la pena si è alleggerita di un anno, da 3 anni e 2 mesi a 2 anni e 2 mesi, ma solo per la correzione di un errore di calcolo. È in attesa del giudizio di appello, invece, la condanna a sette anni inflitta in un processo parallelo, al cugino Antonio Casamonica, altro protagonista del raid, arrivato al bar in Ferrari.

Il clan Casamonica e il raid al Roxy Bar: «Si sentivano padroni» `
 



LE MOTIVAZIONI
Il procuratore generale Andrea De Gasperiis, nel chiedere la conferma delle pena, ha parlato di «Una ostentazione del potere del clan sul territorio». Un elemento ritenuto chiave anche dal gip Maria Paola Tomaselli, che nel giudizio abbreviato di primo grado aveva considerato che i tre Di Silvio si erano mossi con fare da clan, perché avrebbero agito per «ribadire il loro dominio sulla zona» ed «eliminare chiunque si ponesse rispetto ad esso come corpo estraneo, insubordinato o non allineato alle regole da loro imposte».
Il magistrato aveva puntualizzato: «In una situazione di tal fatta, poco importa che l'esistenza di un clan Casamonica non sia stata ancora giudizialmente accertata con sentenza passata in giudicato, non solo perché la sua presenza nel territorio indicata è affermata da due collaboratori di giustizia e dalle stesse vittime, ma soprattutto perché la sussistenza della contestata aggravante è sufficiente che venga evocata». Un impianto accusatorio che ha retto anche in secondo grado.
La sussistenza di un clima di omertà e di paura sono stati evidenziati anche dagli avvocati di parte civile, Licia D'Amico, per l'associazione Caponnetto, e Dora Vencia e Luigi Ciotti, per la disabile e i baristi. La pubblica iattanza, l'ostentazione di superiorità mostrata quel giorno da Antonio Casamonica e dai cugini, era stata dettata dalla padronanza da boss, aveva ricostruito negli atti di inchiesta il pm Giovanni Musarò, titolare dell'indagine. Il pm nella requisitoria contro i Casamonica, aveva parlato di un capobranco che agisce «nel suo feudo», con una famiglia ramificata alle spalle che, «compatta, si muove con le stesse finalità: delinquere, imponendo un clima omertoso».

IL FATTO
Una ostentazione, cominciata con un lancio di occhiali sfilati alla vittima, una ragazza disabile che, sentendo protestare Casamonica «sui romeni di m..» che gestivano il Roxy Bar, si era permessa di dire: «Perché allora non vai a comprare le sigarette altrove?». Una mancanza di rispetto che andava punita. Era stato Casamonica ad armare Di Silvio, a bloccare il barista che voleva intervenire in difesa della ragazza e che poi aveva dato una pacca sulla mano dell'amico e complice per compiacersi. «Una vicenda miserabile», l'aveva definita Musarò. Una ragazzata, invece, ha ribadito ieri, il difensore dei tre Di Silvio, l'avvocato Angelo Staniscia. Che per il nonno ha aggiunto: «Si tratta solo di un vecchietto innocuo». Finito sotto accusa, secondo lui, per avere fatto da paciere, chiedendo ai titolari del bar di ritirare la denuncia contro i nipoti. Anche se la versione delle vittime è un'altra: «Allora volete la guerra?», avrebbe detto l'anziano imputato. Una chiara minaccia, almeno secondo l'accusa.
 

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