Roma, l'odissea negli ospedali dei malati oncologici: «Diagnosi fatte in piedi»

Studio dell'Aimac: 1 su 3 non sa dove rivolgersi.

Roma, l'odissea negli ospedali dei malati oncologici: «Diagnosi fatte in piedi»
di Alessia Marani
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Martedì 23 Novembre 2021, 07:12

«Se il dolore aumenta lo porti in pronto soccorso», oppure «non è di nostra competenza». Quante volte un malato oncologico o un suo parente si è sentito rispondere in questo modo. Troppe. Nel calvario tra la diagnosi e la cura (sempre che ci sia) fino al ritorno a casa che, spesso, preclude a una routine di esami e controlli difficile da accettare e, altre, purtroppo, si traduce nella resa definitiva di fronte al tumore, non sempre è facile orientarsi, accedere agli esami e ai servizi. Delle oltre 2450 richieste di aiuto arrivate tra il novembre del 2020 e l'ottobre di quest'anno ai punti di accoglienza gestiti dai volontari dell'Aimac, l'Associazione italiana malati di cancro, presso gli ospedali San Giovanni, Sant'Andrea, Ifo, Umberto I, San Filippo Neri, San Camillo, Campus biomedico, Tor Vergata e Gemelli, «la maggior parte, il 30% - fanno sapere dalla sede centrale di via Barberini - hanno riguardato informazioni sulla patologia e/o sull'iter diagnostico-terapeutico, il 26% aveva bisogno di materiale informativo, il 14% necessitava di informazioni sui diritti che spettano al paziente oncologico». Vale a dire che molti pazienti finiscono per sentirsi soli e abbandonati e confusi. «Molti ci chiamano per sapere se c'è un centro specializzato a cui rivolgersi e come accedervi».

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«Che la cura di mia figlia non stava funzionando - racconta Anna, la mamma di una trentenne ricoverata in un ospedale di Roma Nord - me l'hanno detto mentre ero in piedi, nel corridoio, davanti ad altre persone a me sconosciute.

Mi sono sentita svenire e anche umiliata, la vita di una ragazza fino a pochi mesi fa nel pieno delle forze veniva liquidata così in poche brutali parole. In quel frangente ti chiedi di tutto, soprattutto: Che fare ora? Abbiamo attivato l'assistenza domiciliare ma sono giorni che non arrivano risposte». Anche Valentina, giovane lettrice che ha scritto al Messaggero per denunciare l'odissea vissuta dal padre affetto da adenocarcinoma polmonare e scomparso a pochi mesi dalla diagnosi, spiega che il responso è arrivato come un macigno: «Tumore al terzo stadio non operabile, la comunicazione ci è stata fatta in piedi tra la porta di uscita del reparto e quella di entrata degli infermieri». E quando dall'hospice finalmente era arrivata la disponibilità ad accogliere il papà ormai terminale,«lui era già morto».


IL COLLEGAMENTO
«A Roma e nel Lazio - afferma Pier Luigi Bartoletti, della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale - esistono eccellenze per la prevenzione e la cura del cancro e dei tumori rari. È stata deliberata una rete oncologica regionale fatta molto bene ma manca il collegamento diretto tra le strutture e il territorio, in primis con noi medici di base. Per cui c'è il rischio di trovarsi nel posto sbagliato e di dovere ricorrere all'urgenza del pronto soccorso. L'accesso alle reti oncologiche non può essere casuale o lasciato alle buone conoscenze o agli accordi tra medici e singoli direttori sanitari». Bartoletti lancia una metafora calcistica: «È come se i medici di base siano la difesa e gli attaccanti le strutture di eccellenza. Se però non hai un centrocampo che funziona, rischi che la palla in porta non arrivi mai, anzi che ti torni indietro. Né puoi sempre e solo lanciare lungo per scavalcare il centrocampo». Il professore Francesco De Lorenzo, presidente Aimac, da tempo chiede dei centri di accoglienza per i malati di tumore gestiti dal sistema sanitario pubblico a cui indirizzare il sospetto malato oncologico. «A quel punto il sistema sanitario indica la struttura specializzata a cui rivolgersi, lì vengono adempiuti tutti gli accertamenti necessari e già con la esenzione dal ticket 048 come avviene, per esempio, nella best practice del Piemonte. Oltre a una emergenza Covid abbiamo una emergenza cancro su cui investire non più differibile». Di fronte alla selva degli esami a cui sottoporsi, al costo e alle attese snervanti, soprattutto tra gli anziani, c'è chi desiste e si lascia letteralmente morire. C'è poi il problema dell'assistenza in hospice, domiciliare e delle cure palliative. Anche in questo caso non esiste un percorso certo e con tempistiche garantite. «Solo noi come Antea - spiegano dalla fondazione no profit - assistiamo 150 pazienti ogni giorno, 1527 nel corso del 2020. Ma, nonostante non siamo un servizio sanitario vero e proprio, abbiamo anche una nostra lista d'attesa dii 40 persone».

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