Covid Roma, prime aperture nei reparti: sì alle visite dei parenti, terapie intensive più umane

Un infermiere controlla un rteparto di terapia infettiva
di Camilla Mozzetti
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Mercoledì 17 Febbraio 2021, 12:12 - Ultimo aggiornamento: 23:34

Potergli sussurrare all’orecchio che a casa lo aspettiamo, stringergli le mani anche se coperte da tre paia di guanti, vederlo sorridere e commuovermi con lui è stata un’emozione fortissima». La sua voce a tratti inizia a tremare ma la signora Laura è felice perché ieri ha potuto avvicinarsi e toccare suo marito ricoverato per Covid-19 nella terapia intensiva del policlinico Umberto I dal 31 dicembre scorso. «Finora l’ho visto solo tramite lo schermo di un cellulare ma poterlo toccare, ripristinare una piccola intimità è stato un regalo immenso».

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Parte da qui una nuova fase per i malati Covid-19, per i loro parenti ma anche per i sanitari nella lunga lotta contro il virus che ha compiuto un anno: tornare ad aprire le porte dei reparti più critici come la terapia intensiva e ripristinare quel contatto umano tra chi cerca di guarire e i propri cari.

Precursore a livello italiano e primo nel Lazio, il policlinico Umberto I torna ad accogliere i congiunti dei pazienti positivi al virus ricoverati proprio in quegli ambienti che finora erano stati trasformati in bunker. Un progetto innovativo che punta ad avvalorare il principio di «umanizzazione delle cure» spiega il direttore sanitario del policlinico Alberto Deales che tuttavia non trascura le procedure di sicurezza grazie a un rigido protocollo redatto proprio dai medici e dagli infermieri dell’equipé del professor Francesco Pugliese, primario del Dea.

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«Il progetto - prosegue il direttore Deales - parte dalla considerazione che i pazienti Covid, isolati finora per ragioni di sicurezza, non potevano sentire i loro parenti se non attraverso i cellulari». Ma come spiega la signora Laura, tra le prime visitatrici “esterne” della Terapia intensiva, «Da ora ci sentiamo tutti meno soli: i parenti ma soprattutto i malati che oltre al virus devono trovare la forza di combattere la depressione dell’isolamento». Le lunghe degenze, l’impossibilità fino ad oggi di far entrare qualcuno che non fosse un sanitario nel reparto in cui sono ricoverati i pazienti gravi hanno spinto i medici a trovare la strada «per un ricongiungimento funzionale alla guarigione del malato - spiega Eugenia Magnanimi medico anestesista e rianimatore - sfondare il muro dell’isolamento perché anche a livello terapeutico il contatto con i propri cari è dirimente. Ci crediamo». 

 


Così in un mese è stato stilato un protocollo approvato dall’ufficio del “risk management” ospedaliero. «Ogni giorno possono entrare fino a un massimo di tre parenti per altrettanti pazienti - spiega il primario del Dea Pugliese - a cui chiediamo l’esito negativo di un tampone anche rapido eseguito nelle 24 ore precedenti». Prima di avvicinarsi ai letti dei propri cari, i visitatori devono “vestirsi” in un ambiente “pulito” in cui si cambiano gli stessi medici, indossare tutti i dispositivi di protezione (dai calzari alla tuta, dalla mascherina Ffp2 ai guanti fino alla visiera o agli occhiali) che vengono forniti dall’ospedale. Con loro c’è sempre un infermiere che li accompagna in tutto il percorso. Una volta completata questa fase, il visitatore entra in reparto potendo trattenersi fino a un massimo di 20 minuti. Le visite possono avvenire ogni 5/6 giorni seguendo un calendario che viene curato dalla caposala del reparto. «Stiamo attivando le visite in tutti e tre i reparti di Terapia intensiva Covid - conclude il direttore sanitario - con l’obiettivo di estendere il progetto anche ai reparti di Malattie infettive Covid, Pneumologia subintensiva Covid e Medicina interna Covid che ospitano ad oggi 170 pazienti». 

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