'Ndrangheta a Roma, il padrino e l'odio per i magistrati: «Pignatone, Prestipino, Cortese. Maledetti»

'Ndrangheta a Roma, il padrino e l'odio per i magistrati: «Pignatone, Prestipino, Cortese. Maledetti»
di Camilla Mozzetti
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Mercoledì 11 Maggio 2022, 10:45 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 00:31

Hanno mosso e fatturato milioni e milioni di euro con quella “provincia” distaccata dalla casa madre e pure da quest’ultima benedetta. "Cosoleto-Roma" un viaggio di sola andata iniziato nel 2015 per innestare nel terreno della Capitale il germe della ‘ndrangheta.

Ci erano riusciti Vincenzo Alvaro e poi Antonio Carzo, più di dieci anni di carcere “duro” e nessun tipo di pentimento. Tutti e due arrivati dal quel paese in provincia di Reggio Calabria, poco meno di mille anime e nessun particolare di rilievo che finora abbia destato la generale pubblica attenzione. 

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Il potere che si misura con l’avere senza sfarzo e senza vanto: «Guardate quanto siamo belli, siamo la propaggine di là sotto». Motivo di vanto e pure di “onore” avere innestato nella Città eterna il germe di quella malavita che tutto pondera e nulla lascia al caso. Investimenti “oculati”, inanellati uno dietro l’altro attraverso l’acquisizione di bar, ristoranti, società ittiche, pasticcerie, tabaccherie e pure parrucchieri. Un fedele amico di famiglia si complimenterà dicendo a Carzo «Sei arrivato a Roma, al centro di Roma, hai aperto un bel locale. Sei come il Papa…».

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Alla “locale” importava investire e reinvestire i capitali derivanti dal traffico di sostanze stupefacenti in primis, aumentare il “capitale” tenendo bene a mente che a «fare una guerra basta un attimo: siamo una carovana, o me la dai o me la prendo».

Gli incontri studiati con dovizia e attenzione perché quando la locale viene informata di essere al centro di un’inchiesta ecco che i summit si svolgono ai funerali o ai matrimoni. Pure quando la figlia di Alvaro convolerà a nozze, la famiglia si preoccupa di recapitare a mano gli inviti tra Roma e la Calabria e nel tableau i 500 invitati che festeggeranno in quel di Cerveteri non saranno segnati con nomi e cognomi ma con dei numeri.

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«A me piace essere umile – dirà Alvaro -  terra terra» nel provare a mettere a freno il fanatismo di un suo socio che lo vedrebbe e lo vorrebbe a bordo di una Ferrari. Ma non è questo il modus operandi. È una criminalità misera soltanto all’apparenza, che non ha bisogno di urlarlo il suo potere perché il risultato parla da sé: da un lato si fa incetta di locali e società dall’altro si mettono a libro paga commercialisti e direttori di banca che hanno la capacità di sviluppare e tutelare gli interessi della “locale” all’interno di una costruzione che vede la famiglia al centro. «E’ sacra» scriverà sui social  proprio la figlia di Alvaro, professione avviata con successo al termine di un percorso universitario di studi. Non hanno paura di niente e di nessuno. Nel 2016, Giuseppe Penna che aveva messo a disposizione del gruppo un numero imprecisato di armi farà capire in maniera inequivocabile: «Vuoi chiamare i carabinieri, chiamali… me li sbatto al c… i carabinieri, la Finanza? Dove vuoi andare? La Questura? Mi denunci, mi arresti, ma io c’ho una nave dietro di me…». 

Carzo, definibile come l'anima più "intraprendente" del duo, forte di quegli anni passati in carcere che verranno poi ricordati con vanto, se la prenderà anche con la procura di Roma. Il "rischio" nella Capitale è maggiore perché dirà ad uno dei suoi interlocutori riflettendo sulla necessità di porre attenzione ad ogni azione: «Comunque c'è una Procura...qua a Roma...era tutta...la squadra che era sotto la Calabria...Pignatore...Cortese... Prestipino (riferendosi agli ex procuratori e all'ex capo della Squadra Mobile ndr)...sono tutti qua e questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri... Cosoleto... Sinopoli... tutta la famiglia nostra... maledetti».

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