Le “pietre” per la mamma, la bisnonna, il partigiano: «Ecco come li hanno presi per una spiata e portati a morire»

Emanuele Di Porto
di Francesca Nunberg
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Mercoledì 26 Gennaio 2022, 22:25 - Ultimo aggiornamento: 4 Ottobre, 19:08

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Gli uomini valevano cinquemila lire, le donne tremila e i ragazzini 1500, ma Emma Di Porto, come racconta la pronipote Micaela Pavoncello, «fu venduta a 400 lire, a prezzi ribassati, perché a 55 anni era già anziana, non abile al lavoro». A ricordarla una pietra d’inciampo bella lucida, messa nei giorni scorsi alla Garbatella «con una cerimonia molto toccante, c’era tanta gente, perfino il sindaco, adesso finalmente mi pare che nonna sia tornata a casa», dice Micaela, 45 anni, davanti al Lotto 31 di via Roberto de Nobili. Altra vita scorre oggi nella palazzina in cui viveva Emma Di Porto, di religione ebraica, nata a Roma il 25 marzo del 1889 e sposata con Sabato Mosè Pavoncello da cui ebbe otto figli. Per la Giornata della Memoria ha avuto il suo riconoscimento accanto ad altre decine di ebrei, cattolici, partigiani, carabinieri, poliziotti, rom, disabili che hanno trovato la morte nei campi di concentramento. Ogni anno, grazie all'associazione culturale arteinmemoria, che ha portato in Italia l'iniziativa dell'artista tedesco Gunter Demnig, si aggiungono altri nomi e altre storie. 

«Il 9 maggio del 1944 la mia bisnonna fu venduta per delazione da un fascista ventenne che si chiamava Amerigo Lepore - ricorda Micaela - Lasciò una famiglia con figli e nipoti, e non tornò più: i fascisti la rinchiusero prima a Regina Coeli, poi fu deportata a Fossoli e il 26 giugno 1944 trasportata ad Auschwitz dove arrivò il 30 giugno e avviata direttamente alle camere a gas». «Insieme a lei venne catturata anche la giovane Enrica Zarfati, sua vicina di casa, una delle poche persone che tornarono vive.

Le famiglie di Emma e di Enrica erano nascoste da più di un mese sotto le fontane del palazzo, nei lavatoi, ma quel giorno Emma era uscita all’alba per portare da mangiare alla sua gallina, che razzolava in cortile, indispensabile per la sopravvivenza...».

Se qui una delazione porta alla camera a gas, lì un gesto d’umanità salva dalla morte. Emanuele Di Porto (stesso cognome, ma non è parente di Emma) quel giorno se lo ricorda bene, anche se aveva solo 12 anni. Abitava in via della Reginella, una traversa di Portico d’Ottavia, con la madre Virginia Piazza, il padre Settimio Di Porto, cinque fratelli, le due zie e i cugini. Delle tre pietre d’inciampo che oggi brillano in via della Reginella una è dedicata a sua madre. Il 16 ottobre del ‘43, il giorno più nero per gli ebrei di Roma, il padre era uscito presto, era un “urtista” e vendeva souvenir alla stazione Termini ai soldati di ritorno dal fronte. «All’alba mia madre sentì dei rumori, delle grida e scese in strada - racconta Emanuele, 90 anni ma una testa lucidissima - non si preoccupò perché pensava che i nazisti prendessero solo gli uomini e voleva avvisare papà di non tornare a casa. Ma i tedeschi fermi a piazza Mattei la videro e la caricarono sul camion. Io che avevo visto la scena dalla finestra, cominciai a gridare “mamma, mamma”, scesi in strada e quelli presero pure me. Ma mia madre non so come riuscì a spingermi giù dalla camionetta dicendo “no ebreo”».

«Ero terrorizzato - racconta Emanuele - ma capivo che non potevo mettermi a correre, si sarebbero insospettiti, così percorsi lentamente il vicolo accanto e arrivai a piazza Monte Savello dove all’epoca c’era il capolinea del tram. Non sapevo che fare, quindi salii dicendo al bigliettaio che ero ebreo e che mi stavano cercando i tedeschi. Lui mi fece cenno di mettermi seduto vicino a lui e rimasi lì tutto il giorno, mentre il tram continuava a girare. All’ora di pranzo divise il suo pasto con me e quando finì il turno disse al collega che ero solo un ragazzino e di farmi restare... Così ho vissuto sul tram per due giorni, sfamato da tranvieri e bigliettai, finché salì un amico di famiglia che mi riconobbe e mi riportò a casa da papà. Quando mi vide si mise a piangere, pensava che anche io fossi stato preso nella retata». La storia di Emanuele è raccontata nel film La Razzia di Ruggero Gabbai sul 16 ottobre.

Ma poi ci sono anche i partigiani. Gastone De Nicolò aveva 19 anni ed è stato un martire delle Fosse Ardeatine. Lo ricorda il sampietrino in via Clelia 37, nel quartiere Appio. Il nipote, Marco Trasciani, oggi Segretario generale dell’Anfim, è impegnato a celebrarne la memoria soprattutto nelle scuole. «Gastone era il fratello di mia madre - dice - Lei ne parla come di una ragazzo gioviale, pronto alla battuta: era lui che teneva in piedi la famiglia. Si adoperava per il cibo, rimediava il carbone per riscaldare l’appartamento, l’olio. Erano tempi in cui si soffriva la fame». Gastone De Nicolò faceva parte della Brigata Matteotti della VI zona. Fu arrestato il 12 marzo del ‘44 dai nazisti, durante una retata, qualcuno lo tradì. «La madre e le sorelle lo guardarono terrorizzate andare via». Non lo vedranno più. «Finirà a via Tasso, vi resterà qualche giorno, torturato perché rivelasse i nomi degli altri componenti. Poi fu trasferito a Regina Coeli, il 21 marzo, dove incontrò Lorenzo d’Agostini, un altro partigiano che lo descriverà pieno di lividi e ferite ma comunque con la forza di scherzare. Aspettava da mio nonno il pacco di sigarette, bene prezioso in carcere. La mattina del 24 marzo era allegro s’era sparsa la voce che li stessero trasferendo ad Anzio ai lavori forzati, e da lì sperava di fuggire. Invece fu portato alle Fosse Ardeatine. Giorni dopo, quando scoprirono la catasta di corpi quasi decomposti, mia nonna lo riconobbe dalla giacca di fustagno che indossava ancora sopra il pigiama».

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