Delitto Varani, ricorso di Foffo: «Era incapace di intendere»

Delitto Varani, ricorso di Foffo: «Era incapace di intendere»
di Valentina Errante Adelaide Pierucci
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Domenica 12 Maggio 2019, 14:11 - Ultimo aggiornamento: 14:13

«Incapace di intendere e di volere» Manuel Foffo, condannato a trent'anni per l'omicidio di Luca Varani, ci riprova e gioca l'ultima carta davanti alla Corte di Cassazione. Punta tutto sull'incapacità nel ricorso presentato agli Ermellini, dopo avere confessato «più per convenienza che per ravvedimento»,come hanno scritto i giudici il delitto orribile compiuto «con la piena complicità di Marco Prato». Il suo complice, intanto è morto suicida, nel giugno del 2017, nel carcere di Viterbo e adesso la procura ha chiesto l'archiviazione del fascicolo.

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IL RICORSO
La Corte d'Assise d'appello non si era lasciata convincere dagli argomenti dell'avvocato Fabio Menichetti, difensore di Foffo. L'insieme di studi compiuti sul cervello e il sistema nervoso dell'imputato, risultato pieno di fragilità e di due polimorfismi, che ne avrebbero condizionato la gestione di vergogna e rabbia, non sono bastate per assicurare a Foffo uno sconto di pena o addirittura l'incapacità. E adesso il legale punta sulle perizie che non sarebbero state valutate dalla Corte. Gli specialisti avevano stabilito che Foffo non capiva che cosa stesse facendo. Se lo avesse capito non lo avrebbe fatto, ma non essendo in grado di valutare ha partecipato al delitto.

La procura di Velletri, intanto, ha chiesto l'archiviazione per il suicidio di Prato aperto due anni fa per istigazione al suicidio. Non sarebbero emerse omissioni degli agenti o dei sanitari che avrebbero dovuto tenere in cura il detenuto che aveva già provato a togliersi la vita. Era giugno 2017. Marco Prato aveva lasciato un primo foglio, appallottolato e buttato via in un cestino: «Non ho partecipato quella notte. Non ho usato le armi». Sulla volontà suicida del detenuto, però, non ci sono mai stati dubbi.

Lo aveva chiarito lo stesso Prato nella seconda lettera lasciata nel bagno della cella dove si è poi lasciato andare con una busta e col gas di un fornelletto da campeggio, di quelli usati in carcere per preparare il caffè. «Il suicidio - aveva scritto - non è un atto di coraggio, né di codardia, il suicidio è una malattia dalla quale non sempre si guarisce, spero che considerandola esclusivamente come patologia, per definizione non ha connotazioni etiche come scappatoia o gesto egoistico perché è solo una malattia». Aveva scelto il rito ordinario per affrontare l'accusa di omicidio premeditato aggravato dalla crudeltà: «Dimostrerò la mia innocenza», diceva, sostenendo di essere stato succube di Foffo e di non aver partecipato attivamente al massacro. Ma si era ucciso il giorno prima dell'udienza. I familiari probabilmente non chiederanno la riapertura del caso. Ma Marco Prato aveva già tentato il suicidio subito dopo il delitto e prima dell'arresto. Il rischio che tentasse di nuovo di farlo era altissimo.

IL DELITTO
La notte tra il 4 e il 5 marzo del 2016 aveva massacrato insieme a Manuel Foffo un ragazzo di 23 anni, Luca Varani, dopo giorni di alcol sesso e droga, in un delirio di violenza senza un perché. Centosette colpi di martello e coltello. Sul corpo si erano accaniti, poi avevano fatto uso di Omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Una mattanza. Aveva scritto il gup nelle motivazioni della sentenza di Foffo: Con azione condivisa Foffo e Prato «hanno reso la vita di Luca un oggetto in balia delle loro pulsioni sessuali...Prato stava perseguendo la sua ossessione di avere rapporti con soggetti eterosessuali, Foffo stava vivendo in modo conflittuale la sua omosessualità». Infine il gup sottolineava la spietatezza di Foffo che, dopo essersi fatto una doccia e aver ripulito l'ambiente, trova il modo di prendersi due pause «ricreative» dove consuma bevande con il suo amico».

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