Covid, la prima malata di Roma: «Combatto ancora con dolori e fatica, i vicini hanno paura di me»

Testatina IL COLLOQUIO Titolo
di Alessia Marani
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Mercoledì 26 Agosto 2020, 08:34 - Ultimo aggiornamento: 20:36

Contenimento, contagio, test, tamponi ma c'è chi già vive la fase post-Covid, quella della guarigione e della riabilitazione, costellata di dolori, paure, incertezze ed emarginazione. «Ci sentiamo abbandonati, lasciati soli a vivere una vita che non è più la stessa di prima, trattati come degli appestati». Stefania Giardoni, 50 anni, ex commessa di un grande magazzino della Magliana, è stata la prima a Roma ad ammalarsi di Coronavirus, alla fine di febbraio, e l'ultima a lasciare il padiglione Covid Marchiafava del San Camillo il 30 aprile, dopo essere passata per Spallanzani, San Filippo Neri e Covid hospital di Casalpalocco.

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«NULLA È COME PRIMA»
Piano piano sta riprendendo la vita di tutti i giorni, «ma nulla è più come prima», rivela. Oltretutto deve combattere con il pregiudizio di chi cerca di evitarla e ha paura di starle vicino.
«L'altro giorno i vicini che abitano sopra di me hanno aspettato che io entrassi in casa e chiudessi la porta per salire sul mio pianerottolo e proseguire sulle scale. Dopo la malattia ora tocca combattere con l'ignoranza». Stefania è entrata a fare parte del gruppo Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto, 1107 iscritti agganciati in poche ore. «Ho così scoperto che non sono l'unica, a mesi di distanza, a perdere i capelli come se facessi la chemio, ad avere subito l'interruzione del ciclo mestruale e come me, in tanti, hanno dolori fortissimi alle ossa, ai piedi, una fitta costante al torace per le cicatrici ai polmoni», racconta. «Per i primi due mesi sembra che ti porti appresso un sasso, ti senti rigida quando ridi, quando respiri». Stefania ha ripreso a lavorare un mese fa, «forse era troppo presto, ma non potevo fare altrimenti, ne ho bisogno». La cinquantenne, mamma di due figli, ora presta servizio per una ditta di pulizie, non una mansione leggera.

«SERVE UN VERO FOLLOW UP»
Spiega che in questi mesi «sono venuta in contatto con molte persone, uomini e donne, che si sono ammalate mentre lavoravano come operatori socio sanitari o addetti alle pulizie in ospedali o case di cura, chi ha ripreso a lavorare lo fa con molta più fatica e la paura di contagiarsi di nuovo. Ma nessuno può dire che non ce la fa, sennò rischi di perdere il lavoro. Per tutti loro, per tutti noi c'è bisogno di un supporto vero, di entrare a fare parte di un percorso assistito e con tutele. Il follow up attuale non è sufficiente».
Alla visita di controllo Stefania è andata un mese fa. «Il dottore mi ha subito chiesto come andava lo stomaco. Io ho dei bruciori grandi, quindi lui sapeva già che potevo averli - dice - mi ha prescritto una montagna di esami, da fare tutti andando in autonomia a richiederli al Cup, in strutture diverse. Mi chiedo: non è possibile programmare per noi pazienti sperimentali, i primi ad avere combattuto il Covid quando anche le cure andavano per tentativi, giornate di day hospital per uno screening completo? Perché, vede, né io né altri possiamo pure prenderci il lusso di richiedere giorni o permessi di continuo».

TERAPIE SPERIMENTALI
C'è chi rivela di avere continui attacchi di panico, chi non ha più riacquistato gusto e olfatto. «Quando bevo una bibita - aggiunge l'ex commessa - è come se ingerissi sapone. Dalla vita fino all'altezza del cuore senti un macigno». Stefania è convinta che ad avere la peggio siano quelli che, come lei, hanno preso il ceppo più forte del virus. «Siamo stati i primi, curati con gli antivirali per l'Hiv e con l'idrossiclorochina. Siamo i reduci del Coronavirus».

 

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