Il radiologo del Fatebenefratelli Luigi Avoli: «Per poter curare i pazienti, vivo con la mia ex moglie»

Il radiologo del Fatebenefratelli Luigi Avoli: «Per poter curare i pazienti, vivo con la mia ex moglie»
di Stefania Piras
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Sabato 11 Aprile 2020, 12:38
Se i rapporti erano tesi prima diventano più tesi ancora, è vero. Però se erano tiepidi succede, a volte, che ritrovino complicità senza neanche dichiarazioni di intenti preventive. Non è servito discutere a Luigi Avoli, 50 anni, medico radiologo e all’ex moglie, collega all’ospedale San Pietro del Fatebenefratelli, per decidere come organizzarsi al meglio per affrontare il mostro. Il coronavirus ha sconvolto anche il loro ospedale: reparti Covid, tute, mascherine, pazienti intubati. Luigi all’inizio di quest’anno era tornato dalla Spagna. Aveva preso un anno sabbatico, aveva provato a cambiare vita, ma il giuramento di Ippocrate lo ha richiamato in corsia.

Aveva aperto una caffetteria con torrefazione di caffè a Benidorm sulla Costa Blanca, la chiamano la New York del Mediterraneo per i tanti grattacieli. «Usavo una tostatrice a legna degli anni 60 prodotta dalla Trabattoni di Lecco, restaurata da me. Compravo il caffè crudo a Valencia e lo tostavo due volte a settimana. Mi ero immerso nella missione del caffè per aiutare a realizzare il sogno di un’ amica, dopo averla assistita durante tutto l’iter per sconfiggere un tumore al seno che l’aveva devastata». Poi il ritorno a casa, e al camice.

Quando è scoppiata la pandemia, Luigi non aveva ancora casa a Roma. L’ex moglie gli ha offerto una mansarda dentro casa sua. La mattina escono insieme alle sei. Uno è seduto davanti e guida. L’altro sta dietro, a debita distanza. Anche Luigi è stato letteralmente inghiottito dal lavoro. Quando non è in ospedale gli manca. «Un bel lunedì a metà mese il primario ci ha convocati tutti e ci ha detto: ok, bisogna attrezzarsi per l’arrivo de pazienti Covid, dobbiamo riorganizzare tutto», racconta. Al San Pietro non esiste nemmeno il reparto di malattia infettive, questo vuol dire riorganizzare tutto a tempo di record.

Sono stati riallestiti due reparti interi, rifatti gli impianti di ventilazione continua, tutte le strutture di aerazione, uno è adibito a isolamento e un altro per i pazienti gravi. Luigi fa le radiografie e le Tac ai pazienti positivi. La maggior parte sono quelli già acciaccati con quadri complicati, i polmoni messi male, le patologie pregresse insomma. Com’è il contatto con i pazienti? «Quelli che sono in terapia intensiva praticamente nullo, sono intubati e sedati. Io arrivo protetto da capo a piedi e con il macchinario portatile, anche questo con pellicole che evitano il contatto. Lo appoggio alla schiena e scatto», dice. Giorni fa è venuto un ragazzo giovanissimo che è stato investito e si è rotto tibia e perone. Piangeva come un disperato, «ma comunque ha avuto una reazione emotiva».

I pazienti che hanno contratto il corona virus non piangono nemmeno. «Sono increduli come se aspettassero un verdetto», dice Luigi abituato ormai a drizzare le orecchie e a capire gli sguardi «visto che con le mascherine il labiale non lo leggi più». Perciò la cura  si trasforma, la infondi attraverso gesti precisi e accurati, scrupolosi.
Cerchi di fargli capire: siamo qui, non ti lasciamo. «A Pasqua ci sarà poco da festeggiare: forse qualche telefonata». E poi? «E poi se si calma la situazione qui, vorrei andare a dare una mano in Spagna come radiologo, ne hanno bisogno». 
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