Roma, la scrittrice Mazzoni: «La mia Testaccio ferma, un quadro di De Chirico»

Roma, la scrittrice Mazzoni: «La mia Testaccio ferma, un quadro di De Chirico»
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Sabato 25 Aprile 2020, 10:14

Roma vuota assomiglia a Forlì come è di solito, dice mio figlio mentre gusta la sua mezz’ora d’aria con la stessa voluttà di quando lecca il suo cono preferito. In effetti la mia città natale non ha mai brillato per brio eppure, scegliendo tanti anni fa di andarmene, sapevo che mi sarebbe mancato il suo placido abbraccio protettivo. Facciamo il giro dell’isolato, lambendo piazza Testaccio che, fino a poche settimane fa, mi dava l’illusione di abitare in un posto perfetto: al centro di una metropoli, come ho sempre sognato, ma con l’aspetto, i ritmi e i suoni di un paese. Le persone che la frequentano, anche solo di vista si conoscono. E ogni pomeriggio una marea di ragazzini la invadono, scorrazzano in bici o sfrecciano sui pattini, tirano calci al pallone o disegnano a terra con i gessetti colorati, mentre seduti sulle panchine adulti e anziani chiacchierano, l’occhio che vigila sui figli propri e altrui, in un’atmosfera caciarona e informale che mescola le età e gli status. 

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È strano ora vedere la piazza desolata e immota. Pare presa in prestito da un quadro di De Chirico. Ma l’imprevisto insinuarsi del virus nelle nostre vite ha spazzato via le immagini consuete. O forse le ha arricchite di ulteriori letture. Per un attimo la Fontana delle Anfore acquista una potenza enigmatica, una maestosità finora sconosciuta. E mi ricorda che il mondo esiste aldilà di noi, molto prima che vi si posi il nostro sguardo, flusso impassibile in cui le cose si urtano e si combinano con l’incandescenza composta dalla vita e dalla morte.

Anche il silenzio del parchetto di piazza Santa Maria Liberatrice, risorto grazie alla cura di genitori e nonni, è irreale, con tutti i giochi parcheggiati in ordine accanto alla ringhiera. Sembra impossibile che le persone rintanate nei numerosi appartamenti dei palazzi sovrastanti facciano così poco rumore. Di tanto in tanto qualche urlo improvviso o una litigata furiosa accelerano il mio battito cardiaco: so che le case possono essere non solo nidi accoglienti ma anche gabbie testimoni di violenze. Poi però tutto ripiomba di nuovo in una quiete lunare. 

È il turno del passeggio di mia figlia. Su via Marmorata bar, pizzerie e ristoranti sono chiusi, alcuni si accenderanno verso sera per le consegne a domicilio. Sul 3 oggi sono in sette, dice. Con lei è diventato un rito contare le persone dentro gli autobus su cui, poco tempo fa, in certi orari, si era costretti a farsi spazio a suon di spinte. Interpreta la leggera crescita come un segno fausto e mi chiede se quest’estate andremo al mare in Romagna.
 
E mentre ci prepariamo a festeggiare l’anniversario della Liberazione d’Italia ancora in clausura, anch’io spero di sì e che la quarantena, dopo averci costretti a una prossimità esclusivamente familiare h 24, finisca. Perché, nonostante mi abbia regalato inaspettati momenti di dolcezza, ho bisogno di riappropriarmi di quella stanza tutta per sé, per ottenere la quale le donne nel passato hanno battagliato. Nello stesso modo i miei figli sono stufi di stare soltanto con il babbo e la mamma e non vedono l’ora di incontrare i loro amichetti. 
Loro mi chiedono “quando” finirà questo periodo insolito ma non mi fanno mai domande sul “dopo”. Quelle le lasciano a me. Ancorati alle abitudini e al senso di stabilità che ne ricavano, il “dopo” se lo immaginano uguale al “prima”, mentre esplorano l’avventura e l’ignoto durante i loro giochi. Sono io che invece arzigogolo su come guadagneremo e come tireremo avanti. Come affronteremo l’inevitabile impoverimento. Se avremo voglia di uscire. O al contrario saremo del tutto demotivati. Se selezioneremo di più i contatti. O ci butteremo nella mischia. Se alla fine, quando si troverà la medicina, si continueranno ad editare i libri. E quanti. Se si ripopoleranno i cinema e i teatri, già in crisi prima dell’epidemia. Se questi oggetti e luoghi a me cari diventeranno sempre più desueti o recupereranno un nuovo vigore, stimolando quella forza vitale di cui avremo tutti un gran bisogno. Intanto nella libreria appena riaperta che porta il nome del quartiere c’è sempre qualche cliente che si aggira tra gli scaffali. Da molti negozi ancora sprangati si percepiscono all’interno persone all’opera.

Pure il mercato ha alcuni stand già in funzione e un composto via vai di gente che si serve. E questo sotterraneo brulicare di vita alimenta la mia fiducia. Walter Benjamin si augurava che dopo l’ultimo giorno tutto sarebbe stato come qui sulla terra, solo leggermente diverso. Ecco. Anch’io in fondo anelo a ritornare a ciò che già conosco e a quello che di buono conteneva . Con qualcosa di diverso, però. Di migliore, forse. Almeno un po’.

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