Coronavirus, Rino Barillari racconta la "sua" Via Veneto: «Le lunghe notti senza Dolce Vita»

Coronavirus, Rino Barillari racconta la "sua" Via Veneto: «Le lunghe notti senza Dolce Vita»
di Rino Barillari
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Venerdì 24 Aprile 2020, 13:47

Io ne ho viste di cose, in vita mia. Molte di più ne ho fotografate. Tantissime a Roma, nel suo cuore nascosto, la notte, in maggioranza. E non ho mai avuto paura, anche nelle ore più buie, sulle strade meno illuminate. Perché alla fine, hai sempre la sensazione che sei ad un grido da tutto e soprattutto da qualcuno, qui. E non lo trovo un paragone, con il deserto, che pure si sta ripopolando in queste ore, di Roma così. Tutta Roma è il mio quartiere: gli anni della cronaca e quelli della Dolce Vita; il tempo dei rapimenti e del terrorismo, e quello delle notti folli e delle attese con scazzottata o gelato piantato in faccia.

Un tempo che sembrava eterno, come questa città. Poi il click e – addirittura – il Papa solo a Piazza San Pietro: che foto che è stata quella! E che foto sarebbe quella sua con la mascherina. Oggi, quando un giro per lavoro mi capita di farlo, anche in Centro, nel mio regno, non mi sento più padrone. Un po’ mi fa paura, Roma, eppure di avventatezze in una vita da fotografo e paparazzo ne ho fatte tante. Se mi capita qualcosa, ora, in mezzo a questo deserto, chi mi soccorre, chi mi si fila? Credo che proprio la notte dia il segno di quanto clamorosamente storico sia il passaggio che attraversiamo.

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Roma di notte così spero proprio di non doverla più raccontare. Perché non mi ricorda il vuoto dei giorni dell’austerity, ma la notte lunga dei giorni del rapimento Moro. Eppure in quel tempo, uno scatto davanti al Jackie’O ci scappava sempre. Alla fine, quando giravo nei primi giorni della quarantena per fotografare quello che non c’era più, mi dicevo che era un sogno. Uno di quelli strani che faceva Fellini, quando pensava a certi bagni nella Fontana di Trevi o s’inventava pagliacci nei bar di via Veneto. Ecco, via Veneto è l’epicentro di tutto per me. In questo vuoto avrebbe fatto bene a scendere il marziano di Flaiano, perché è una cosa da impazzire questa per me com’era la città degli uomini per lui.

Girando per i luoghi dei miei incontri soliti, trovo solo i fantasmi di quella gente che mi fa compagnia tutte le notti: ho capito che viale Trastevere così non è la mia Ocean Drive; che Monti, mentre scendo per via dei Serpenti non è Montmartre. Perdi i punti di riferimento: da quelle parti c’è sempre una signora della strada, che resta fedele solo alla sua presa di posizione in quello spicchio di città. Non gliene fregava niente che intorno la movida avesse portato tanti pischelli senza una lira. Restava lì: solo il virus è riuscita a farla allontanare.

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E mi allontano pure io, che qualche anima da fotografare la vorrei pure trovare. Passo davanti ai locali: al Jackie’O, ma anche il Piper. E penso a quando quella calca, dentro una sala da ballo (io aspetto fuori, eh), la potranno rivivere vip e gente normale. E proprio a via Tagliamento penso: diciamo tutti che «prima viene la salute», e io ci sto al ragionamento, allora penso che sul dancefloor finiranno per metterci le cyclette – distanziate – e che alla fine la musica la sentiremo così, muovendo le gambe. Come nelle palestre. Il fotografo vede anche quello che non guarda, se ha un po’ di fortuna. E io cercando i miei punti di riferimento umani, senza trovarli, mi rifugio nella ricerca di altri compagni di vita.

A Piazza Navona, forse l’avete visto, sta crescendo l’erba tra un sampietrino e l’altro. Ma lì quei pochi che ci passano, dopo il tramonto e la serenata di Niccolò, possono scoprire quello che io sostengo da sempre: gli animali hanno i turni. Li rispettano, per spartirsi quel che c’è e che resta della vita degli uomini che si muovono attorno allo splendido barocco di fontane e chiese. Va meglio a quelli di periferia, di animali: ora mancano i turisti, nel Centro Storico, e si mangia meno. Però restano i turni: che ne sanno, gli animali, di quando finirà la Fase 2 e quando torneremo in fase tutti. Prima spuntano i topi, dopo i gatti e alla fine i gabbiani. Ce n’è uno che riconosco, si chiama Attila, e penso che capite tutti perché: gli feci una foto bellissima, segno dei tempi.

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Mi manca pure Attila. Mi manca una foto, un bacio rubato alla privacy. Dovessi inventarmela, una foto, invece che portarla via all’attimo, mi regalerei uno scatto a Fontana di Trevi. Io sempre ricordo a tutti – specie agli stranieri - che servono tre monete, “three coins”: una per la fortuna, una per l’amore e una per ritornare. E allora immaginiamoli insieme, in questo deserto splendido della fontana di Anitona e Marcello due fidanzati (l’età non conta) con le mascherine che provano a darselo, questo bacio, mentre buttano la monetina. Click, ed eccola la foto che mi manca, che ci manca a tutti. Come ci manca una notte normale, senza papi soli a San Pietro; senza Attila che fa il padrone a piazza Navona. Con le persone a pancia piena fuori da un ristorante dove s’è mangiato e bevuto; e fatto selfie con l’oste e la foto alle pareti di Cary Grant e Audrey Hepburn. È il mio mondo, il mondo del King. Lo rivoglio presto, mica per me... Per tutti.

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