Virus, la dottoressa Sant'Eugenio: «Le donne malate non possono pagarsi le cure perché senza lavoro»

Virus, la dottoressa Sant'Eugenio: «Le donne malate non possono pagarsi le cure perché senza lavoro»
di Laura Larcan
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Lunedì 11 Maggio 2020, 12:40 - Ultimo aggiornamento: 14:19
«La dignità di alcune donne malate è una cosa che non t’aspetti facilmente, e io l’ho scoperta proprio ora, in questa emergenza del coronavirus». Elisabetta Abruzzese, romana, è ematologa del Sant’Eugenio ASL Roma2: sono oltre trent’anni che fa ricerca, studia e cura malattie del sangue con una specializzazione nelle donne affette da leucemia che aiuta anche ad affrontare una gravidanza, ed è in prima linea in questo periodo di quarantena tra attività ambulatoriali, Day Hospital e reparti degenza. E' qui, giorno dopo giorno, che ha scoperto l’altra faccia dell’epidemia. Quella di donne non contagiate, ma che a causa del lockdown prolungato si ritrovano senza lavoro e soldi (e parliamo anche di piccole cifre) per pagarsi cure o farmaci. E che decidono di rimandare tutto a quando potranno riprendere eventualmente un lavoro e permettersi il trattamento.

«Sono storie che ti stravolgono - riflette Elisabetta - Penso ad una nostra paziente alla quale abbiamo proposto un percorso di preservazione della fertilità prima di una terapia che potrebbe comprometterla. All’inizio aveva accettato, poi, quando è venuta a conoscenza che il percorso è tutto in convenzione ma una medicina specifica è a pagamento, ci ha confessato di essere in attesa della cassa integrazione da due mesi e di non poterselo permettere». Non è da sola. I casi riguardano donne giovani, trentenni.

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«Un altro caso che ci ha molto colpito è quello di una paziente che deve venire a fare delle flebo per risolvere un problema di anemia. Ci ha chiesto timidamente se c’è un ticket da pagare per quelle flebo, non essendo esente, e alla nostra risposta affermativa dice di non potersi permettere le cure e se può rimandare di un paio di mesi...». Rimandare significa anche affrontare il rischio di compromettere la salute. «Mi ha colpito la dignità di queste donne, che giustificavano la situazione “spostando” l’ostacolo a giorni migliori...», dice la dottoressa. Il Coronavirus è fatto anche di storie che vanno oltre l’odissea del contagio. Conseguenze di questa emergenza nazionale, ma che non vanno trascurate.

Come dottoressa Elisabetta Abruzzese non se l’aspettava. «Per tutte queste donne poi la soluzione è stata trovata, ma il primo impatto personale è stato di disorientamento - commenta Elisabetta Abruzzese - In tanti anni di lavoro, e sono in ematologia dal 1989, non era mai successo qui in Italia. Situazioni ben più gravi sono più comuni negli Stati Uniti dove ho trascorso 4 anni tra il 1993 ed il 1997, ed è stato uno dei motivi che mi ha spinto a tornare in Italia - continua la dottoressa - dove abbiamo sempre avuto la possibilità di curare tutti al meglio indipendentemente dalla condizione economica o sociale». L’altra faccia del Covid-19 è anche questa, cambiare il modo di fare il medico.

«Abbiamo dovuto reinventare il nostro lavoro - spiega Elisabetta - e riuscire a restare vicino ai pazienti, e a proseguire le cure nei casi più acuti, cronici o fragili in una fase storica in cui tutti gli ospedali, anche per proteggere questi pazienti, ruotano intorno al Coronsvirus». Di storie umane particolari, Elisabetta Abruzzese, ne ha collezionate molte negli ultimi due mesi. Ma pensa anche a come è cambiata la percezione dei medici da parte della gente: «Come le guardie - racconta - che quando ti fermano e gli dici che sei medico ti sorridono con gli occhi e ti sentono a loro vicine, tutti uniti da un lavoro che ti mette a servizio della comunità e ti fa sentire ancora più utile».
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