Coronavirus Roma, casi dal Bangladesh, tensione dentro la comunità: «Abbiamo paura»

Coronavirus Roma, casi dal Bangladesh, tensione dentro la comunità: «Abbiamo paura»
di Laura Bogliolo
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Martedì 7 Luglio 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:07

«Molti partono da Dacca già contagiati perché vogliono farsi curare in Italia, visto che nel nostro paese la sanità è privata e c’è molta povertà». È anche così che nasce il caso dei «contagi di ritorno», con il virus portato da chi arriva dall’Estero mostrando tra l’altro certificati. E non è facile contenere il fenomeno tanto che ieri, nella prima giornata di avvio dei tamponi per la comunità del Bangladesh nella Asl Rm2 di via Nicolò Forteguerri, si sono presentati soltanto in tre. Sulla carta, i cittadini del paese asiatico residenti a Roma sono 31.734 (nel 2015 erano 28.493), si tratta della terza comunità di stranieri della Capitale dopo quelle romene e delle Filippine.

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Ma in realtà sono molti di più viste le presenze irregolari, ed è proprio tra le pieghe dell’illegalità che si nasconde il problema maggiore: senza tessera sanitaria e senza permesso di soggiorno non si può essere sottoposti ai tamponi e molti hanno paura di presentarsi in ospedale. Mohammed Taifur Rahman Shah dell’associazione “Coordinamento Ital - Bangla & Sviluppo” parla della grave emergenza sanitaria in Bangladesh, dei problemi politici e della fuga di alcuni per cercare cure in Italia. E annuncia: «Oggi incontreremo il V Municipio per organizzare i tamponi, non sappiamo neanche quanti ne fanno al giorno, siamo molto preoccupati e abbiamo chiesto un intervento da tempo all’amministrazione». Si temono anche «ritorsioni, atti di razzismo contro la nostra comunità».
 
I PERICOLI
La questione si complica di più se si ascoltano le parole di Bachcu, portavoce dell’associazione “Dhuumcatu”: «Chi torna dopo mesi dal Bangladesh ha la tessera sanitaria scaduta e non può sottoporsi ai test». E poi solleva anche il problema di chi ha «il permesso di soggiorno non rinnovato». All’interno della comunità si sta cercando di stringere il cerchio su chi è appena tornato da Dacca per evitare altri contagi. «Alcuni ragazzi arrivati da poco mi hanno chiesto se potevano venire alla preghiera del venerdì - aggiunge Bachcu - abbiamo preferito non farli essere presenti e gli abbiamo chiesto di restare a casa, in quarantena, per evitare il rischio di contagi». Ma molti di ritorno da Dacca in questi giorni si ritrovano senza casa: «I coinquilini non li vogliono, hanno paura di ammalarsi». 

L’ISOLAMENTO
Abitano in sei, in sette, anche in dieci stipati in un unico appartamento, il loro regno storicamente è Torpignattara dove c’è una grande mobilità, molti spostamenti insomma, tanto che il Campidoglio mensilmente deve registrare le cancellazioni dall’Anagrafe per “irreperibilità”: circa 1.596 secondo i dati diramati nei primi mesi del 2020 tra italiani e stranieri e di questi 191 erano del Bangladesh, alcuni partiti per Londra dopo aver accumulato debiti per le attività commerciali che comunque continuano a crescere. Dal 2016 al 2017, ad esempio, i mini-market sono aumentati del +13%, passando da 1.432 a 1.622. 

L’associazione sta cercando di chiedere a chi è appena rientrato dal Bangladesh di non aprire subito i negozi, ma di restare isolato a casa. Per chi invece viene “cacciato” dagli appartamenti dagli stessi connazionali, paga un bed & breakfast e chiede soprattutto i tamponi a Fiumicino e la quarantena «in strutture come scuole, visto che sono chiuse». L’avvio dei test per chi arriva da Dacca, in realtà, sono stati già decisi e avviati proprio ieri per volontà della Regione. C’è poi chi apre uno squarcio su un altro tema. «Alcuni sono tornati da Dacca con un certificato, ma poco dopo si sono ammalati, sono quindi partiti già contagiati» dice Moniruzzaman Monir del “Bangla Press Club”. E quindi: i certificati erano validi? Motivo in più per appoggiare la scelta della Regione di attivare controlli strettissimi ai passeggeri dei voli provenienti da Dacca con tamponi allo scalo aeroportuale di Fiumicino. 

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