Roma, lo scrittore Yari Selvetella: «Centocelle alla finestra per l’addio a mio nonno»

Un tratto dell'Acquedotto Alessandrino, a Centocelle
di Yari Selvetella
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Domenica 19 Aprile 2020, 11:18 - Ultimo aggiornamento: 14:37

La strada vuota, prima, non durava più a lungo di un’alba: il silenzio di Roma era il privilegio dei nottambuli e la condanna di certi salariati, già in giro alle sei del mattino. Poi, in pochi minuti, svaniva l’incanto: il ronfo dell’autobus, lo stridio sui binari dei vecchi trenini, le autoradio, i rimbrotti ai furgoni parcheggiati in seconda fila. Verso le sette, sulla via Casilina, l’orizzonte inghiottiva, con la luna, anche il silenzio. Intanto assorbiva nuove voci: le nostre.

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Ora quel fugace tempo di assenza si è come dilatato. Sono le dieci e al semaforo della Stazione di Centocelle ci sono solo io, o così mi sembra nei primi interminabili istanti di attesa. Senza poter osservare un passante che sbuca dal sottopassaggio, o una donna che si ritocca il make-up nel retrovisore, senza arrabbiarsi con un altro automobilista per qualche scorrettezza, il tempo si muove diversamente ed è difficile interpretarlo. Un istante ne contiene molti altri. 

Nel pratone qui accanto – quando? Anni fa? Mai? Proprio ora? – sono accaduti fatti significativi: in un aprile luminoso come questo, Wilbur Wright a bordo del suo Flyer, con un motore a 4 cilindri da 12 cavalli, si alzò per primo in volo su Roma. Era il 1909. Mi chiedo: il rombo che all’improvviso si appropria della città, adesso, stamattina, appartiene davvero all’elicottero che conta le miglia dei runner e le fughe di fagottari impenitenti, durante la pandemia? O è la voce di quell’antico apparecchio? Era un aprile come questo, coi glicini in fiore fuori dalle casupole, anche nel 1944: c’era il coprifuoco, allora, stabilito dal Comando tedesco per sedare sommosse e sabotaggi. Giusto oltre quel parco, il 17 aprile, lì, al Quadraro, furono rastrellati e spediti nei campi di concentramento circa duemila italiani. Davanti a questo semaforo, ai primi di giugno dello stesso anno, sfilarono i soldati della 85° divisione di fanteria americana, diretti a Porta Maggiore. 

Siamo di Roma, apparteniamo a una lunga storia. Tutti noi, anch’io. In quella Roma livida e affamata, proprio qui, sulla via Casilina, si aggirava un ragazzino, arrivato in città da San Mango sul Calore, un paese dell’Irpinia, in cerca di lavoro, di pane e di futuro. Si chiamava Mario Selvetella, classe 1928. Era mio nonno. È morto stanotte, a casa sua, qui dietro l’angolo, in via dei Platani. 

Avrebbe senz’altro voluto che il suo funerale fosse celebrato nella chiesa di San Felice da Cantalice, destinazione delle sue passeggiate domenicali degli ultimi sessant’anni e imponente scenografia in fondo a via dei Castani, il corso di Centocelle, questa piccola città nella città. Le norme contro la diffusione del Virus, però, vietano assembramenti e non sono ammessi i soliti riti. Arrivo in via dei Platani, che inizia ad animarsi: cani e padroni esausti dalle troppe uscite, tabagisti, signore dirette al supermercato o in farmacia. Ma è solo una parvenza, ancora vince il silenzio: dal cancello del palazzo anni Cinquanta, esce la bara. 

Gli operai delle pompe funebri indossano guanti e mascherine, lo stesso vale per noi, i pochi eredi, che restiamo in silenzio, ciascuno a distanza di metri. Allora sui balconi e dietro le tapparelle, sulle loggette e dai cortili inizia ad affacciarsi qualcuno, amici, curiosi. Una vecchietta con la vestaglia rossa, che non conosco, mima un abbraccio; è per noi. Mio nonno era il calzolaio del quartiere e gli anziani si ricordano tutti di lui.

Un passante mi domanda, senza mezzi termini, se c’entrano i polmoni. No, è morto nel sonno. E allora l’uomo se ne va, non so se rincuorato o deluso. Mio padre e mia zia sono riusciti a contattare il parroco, che si è offerto di passare sotto casa. Benedice il carro funebre, prega. Subito dopo, il silenzio è intero. Adesso ci sono decine di persone affacciate alle finestre, i telespettatori, i membri dei gruppi facebook, i lavoratori in Cig, i precari, gli ipocondriaci, gli indifferenti, i saggi, tutti. Davanti all’immagine di un rito improvvisato, di un mancato saluto, sappiamo pensare ciò che in questi mesi ci ossessiona. Non vogliamo morire, ma non vogliamo più avere paura. 

Sono attimi intensi.

Si celebra la piccola grande storia di un quartiere, di una via, di una vita. Eri un uomo capace di fatiche e di ironia, ci hai fatto sentire amati, molto a lungo. In un mattino di aprile, nella città ammutolita e luminosa, siamo riusciti a dirtelo comunque: ciao, Mario.

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