Coronavirus, la moglie del poliziotto di Pomezia contagiato: «Raccolse denunce da cinesi»

L'ambulanza diretta allo Spallanzani
di Alessia Marani
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Mercoledì 4 Marzo 2020, 13:08 - Ultimo aggiornamento: 5 Marzo, 07:55

Da martedì mattina non può più parlare con suo marito, il sovrintendente di polizia ricoverato allo Spallanzani di Roma perché affetto da coronavirus: lo hanno intubato e portato nella terapia intensiva, quindi niente più telefonate o messaggini. Lei, la moglie, casalinga, 51 anni, vive da reclusa in casa con la figlia di quasi vent'anni e il figlio 17enne. Anche loro sono positivi al virus, ma stanno bene, hanno avuto una febbriciattola nei giorni scorsi e niente più. Ora, però, la donna ha un'ossessione: «I medici ci dicono che può avrere contratto il Covid-19 dopo che nostra figlia è tornata da un concerto a Milano, ma noi non siamo sicuri. Mio marito lo ha detto anche ai sanitari che lo hanno visitato in tutto questo tempo, alcuni senza neanche capirci nulla: lavorava all'ufficio denunce e a fine gennaio raccolse denunce anche da cittadini cinesi».

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Signora può spiegarci meglio?
«Mio marito stava male già dal 2 febbraio, si era ammalato ed era rimasto a casa dal lavoro per una settimana, non si alzava dal letto, lui che non aveva mai avuto un raffreddore negli ultimi vent'anni, ci conosciamo da sempre: 24 anni di matrimonio e dieci da fidanzati. Per questo non siamo convinti del tutto che nostra figlia sia stata la causa del contagio. A Milano ha trascorso in albergo solo una notte, è andata a un concerto che non era nella zona rossa».


Di cosa si occupa suo marito al commissariato di Spinaceto?
«E' all'ufficio denunce ma anche alla squadra giudiziaria. Lui stesso parlando con me e con i medici, fin da subito, si era preoccupato perché aveva raccolto denunce anche da cittadini cinesi, a fine gennaio. Poi è in forza anche alla squadra giudiziaria. Dopo la prima settimana di malattia era tornato al lavoro, poi si era sentito di nuovo male e si era ripreso un'altra settmana di stop. Di fatto era rientrato in ufficio solo il 24 e so che aveva un servizio esterno, ma era un'indagine e lui non me ne parlava mai, non so di cosa si tratti».

Vi siete, dunque, resi conto subito che c'era qualcosa di anomalo in questa strana influenza?
«Sì, il 25 la febbre non scendeva. Abbiamo chiamato il medico di famiglia, siamo andati a studio nel tardo pomeriggio. La dottoressa aveva la mascherina e si teneva a distanza. Ha capito che poteva essere il coronaviorus, ci ha rimandati a casa dicendoci di chiamare il 1500. Così abbiamo fatto, ma al numero di emergenza non rispondeva nessuno: ci avevamo provato anche prima di andare dal medico, inutilmente. Abbiamo dunque fatto il 112, l'operatore però ha cominciato a rimpallare la nostra telefonata finchè non ci ha contattati un medico alle 22 di sera dicendoci: può andare in un pronto soccorso ma che abbia il reparto di Malattie Infettive. E la mattina dopo siamo partiti per Tor Vergata, lì è iniziato il calvario».

Ossia?
«Mio marito chiedeva di potere fare il tampone, abbiamo spiegato subito che tipo di lavoro facesse e detto anche del passaggio di nostra figlia a Milano, ma niente. Lo hanno lasciato tutta la notte seduto su una sedia nell'atrio del pronto soccorso, con l'agocannula a un braccio. Così quando la notte hanno spento i termosifoni, non ha potuto nemmeno mettersi la giacca e le sue condizioni sono peggiorate. Lui ha insistito per il test e, allora, sollecitati i mediic hanno chiamato lo Spallanzani, ma anche per lo Spallanzani non c'erano i presupposti adeguati per sottoporlo al tampone. Perciò la mattina dopo, con una tac che evidenziava un principio di polmonite bilaterale, lo hannoo rispedito a casa».

Senza cure?
«Gli hanno dato una terapia domiciliare con iniezioni e antibiotico. E hanno demandato a una dottoressa della Asl il compito di chiamarlo per verificare la temperatura tre volte al giorno. Quando la sera di sabato la febbre è salita a 40 gradi, mio marito ha chiamato il 118. Ma l'odissea non era ancora finita».

Perchè? Cosa è successo?
«L'operatore del 118 è stato bravissimo. Davanti a me ha chiamato lo Spallanzani per avere l'autorizzazione a portarlo lì, ma gli hanno detto di no. Di portarlo al Gemelli o un altro policlinico. Lui ci ha portato al Gemelli dove è stato preso in consegna in maniera adeguata e da dove poi è stato finalmente portato all'Istituto di Malattie Infettive».

Come sta ora suo marito?
«Male, è intubato. Se lo avessero curato meglio e prima non rischierebbe tanto ora. Se questa forma di polmonite viene presa per tempo non si hanno gravi conseguenze. Invece lui me l'hanno abbandonato... Fino a martedì mattina almeno potevo sentirlo, parlarci. Noi scherzavamo e discutevamo sempre, è il nostro modo di amarci, e queste ore non passano mai. Soprattutto, lui è una persona veramente buona, non si merita tutto questo. Fortunatamente non ha avuto molti contatti all'esterno. Nell'ultimo mese è quasi sempre stato a casa e lui non è uno sportivo, non ama la vita mondana, al massimo esce per una passeggiata nei campi con il cane. Adesso vorrei solo che l'incubo finisse».

Ieri sera hanno ricoverato anche sua cognata...
«Sì, è la moglie del fratello di mio marito, l'unico della famiglia negativo al test. Ieri sera non respirava bene e io stessa le ho consigliato di chiamare, perchè, ripeto, se riconosciuto e preso subito per tempo, il coronavirus non fa paura».

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