Coronavirus a Roma, il racconto: «Io, positivo, costretto a violare l'isolamento per farmi un tampone»

Coronavirus a Roma, il racconto: «Io, positivo, costretto a violare l'isolamento per farmi un tampone»
di Laura Larcan
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Venerdì 17 Aprile 2020, 10:49 - Ultimo aggiornamento: 14 Febbraio, 12:00

Si sente come Ulisse, tornato a casa dopo un’Odissea. Contagiato e guarito, ma con l’amarezza di aver scontato sulla propria pelle le falle di un sistema sanitario. «Ce l’ho fatta, la vita continua, me lo ripeto come un mantra, eppure non posso smettere di pensare che sono vivo perché sono stato costretto a trasgredire le regole», racconta dalla sua casa al Ghetto, Cristiano Brughitta, 53 anni, giornalista. Per lui tutto è iniziato il 15 marzo scorso. Si ammala, febbre altissima a 39 e mezzo, problemi respiratori. Di lì a dieci giorni chiamerà il 118 per tre volte, ma non riceverà nessuna assistenza sanitaria. Motivo? Secondo il protocollo della centrale operativa d’emergenza non aveva il requisito del link epidemiologico. Alla domanda se avesse avuto «contatti diretti con casi positivi», lui non poteva rispondere: «Non lo sapevo».

Il suo caso non viene preso in considerazione. La ASL RM1 di riferimento non richiama: nessuna assistenza sanitaria telefonica nè terapia. I giorni passano, lui sta sempre peggio, tra febbre e fiato corto. Il 26 marzo, la decisione: viola la quarantena, trasgredisce ai divieti di presentarsi ad un pronto soccorso. Febbricitante raggiunge il Sant’Eugenio. Le condizioni sono subito evidenti: una radiografia rivela la polmonite e due tamponi (il primo è sbagliato) offrono il verdetto: «Il 27 marzo, nel secondo giorno di ricovero viene fuori che sono positivo al tampone». Era stato il medico di base a dirgli di avvisare il 118. Il primo tentativo, il secondo, il terzo. «Rivelavo i dati clinici, ma alla domanda se nelle precedenti 48 ore avessi avuto contatti con un covid positivo, facevo rimostranze perché non lo sapevo. Mi rispondevano che avrebbero avvisano la Asl di riferimento, che mi avrebbe ricontattato». Tre richieste di soccorso. Nessun contatto. «Mi chiedo: ma quali direttive ha il 118 se non quella di individuare i contagiate e dare soccorso?».

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Poi, la corsa al Sant’Eugenio attrezzato con una tenda per il triage. «Due ore dopo ero ricoverato d’urgenza, il 27 marzo era ufficiale, ero positivo al coronavirus». Eppure, altra beffa: «La mia positività doveva essere segnalata subito alla Asl di riferimento per far partire i controlli sui miei congiunti, su mia moglie nello specifico, come stabilisce lo stesso Ministero della Sanità con una circolare del 20 marzo scorso: per garantire l’efficacia dei controlli, l’esecuzione del tampone deve essere immediata su tutti i parenti che dalle ultime 48 ore prima dei sintomi sono entrati in contatto con la persona positiva. Ad oggi, mia moglie non ha ricevuto nessuna assistenza sanitaria».

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Al Sant’Eugenio resta due giorni, poi Cristiano viene trasferito al Covid Center dell’Israelitico: «In un reparto con letti dotati di fornitura di ossigeno, dove comincio la terapia». Resterà per altri otto giorni. «Giorni che lasciano il segno sul corpo e la psiche - dice Cristiano - Ho sofferto fortissimi risentimenti gastrici, disidratazione, le mie condizioni fisiche erano tali che non riuscivo a tenere neanche le palpebre aperte. La malattia ti mette a disagio. Ero solo, separato dal mondo, in un reparto in cui i medici non li vedi in faccia, coperti come sono da mascherine e scafandri. Le protezioni, tra l’altro, cambiavano di giorno in giorno: all’inizio indossavano tute con cappuccio, poi camici di carta. Se chiedevo come mai, mi rispondevano: sono esaurite le scorte dei dispositivi di protezione».

Parla con l’affetto nella voce Cristiano: «Ma il lavoro era impagabile, grande professionalità, nei momenti di sofferenza più acuti c’erano gli infermieri, molti stranieri dall’America Latina e dall’Europa dell’est, che riuscivano a confortarti. Spesso con le mascherine, gli si annebbiavano gli occhiali. La situazione si complicava quando dovevano fare un prelievo. Quando sono stato un po’ meglio ho comprato su Amazon una bottiglia anti-fog e gliel’ho fatta recapitare». Il 4 aprile, dopo due tamponi negativi, Cristiano torna a casa. «Il 14 aprile mi arriva la telefonata della Asl: hanno saputo che sono positivo. Gli dico: vero, ma viaggiate con due settimane di ritardo. Bene, allora la cancelliamo, replicano. E l’indagine epidemiologica sui congiunti esposti al contagio? Mia moglie non ha sintomi, ma nessuno le esegue il tampone».

 

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