Coronavirus, «Io, medico militare, combatto il virus come in guerra: senza orari né affetti»

Coronavirus, «Io, medico militare, combatto il virus come in guerra: senza orari né affetti»
di Stefania Piras
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Mercoledì 22 Aprile 2020, 09:27 - Ultimo aggiornamento: 11:35

Sotto il camice, la divisa. Doppia responsabilità per Antonio Montini, 55 anni, romano e ufficiale medico dell'Aeronautica militare che lavora presso il Celio, il policlinico militare che dipende dal comando logistico dell'Esercito, dove ci sarà anche un centro Covid grazie all'accordo tra il ministro Lorenzo Guerini (Difesa) e il ministro Roberto Speranza (Salute). E qui sono anche stati sequenziati per la prima volta insieme all'Iss gli interi genomi del virus SarS-Cov-2 isolati dal paziente cinese e dal paziente uno di Codogno.
Per Montini, laureato nel 1995 in Medicina interna, che è stato in missione all'estero sei volte, in Afghanistan (è stato direttore dell'ospedale di Herat), la metafora con la guerra è pertinente, ma solo parzialmente. «Questa è una esperienza che segna, come in Afghanistan non hai orari, devi abbandonare affetti e famiglia», dice il colonnello. «Abbiamo iniziato ad accogliere i civili fin da subito, attualmente abbiamo 44 pazienti», racconta a fine turno di una giornata sfiancante come le altre. La Sanità militare è in campo dal primo momento, i medici delle forze armate sono stati inviati in Lombardia quando la regione è andata subito in sofferenza. Molti colleghi di Montini sono ancora a Piacenza. Al Celio sono passati tanti pazienti: «Anche un collega, è venuto con la figlia di 9 anni, erano entrambi positivi, sono stati ricoverati insieme, poi mi ricordo una signora con il figlio, entrambi positivi: il marito era lontano, in Afghanistan. Li abbiamo fatti parlare in videochiamata». Non ci sono precedenti di una situazione così. È molti simile a un terremoto, «ma è anche peggiore», racconta il colonnello Montini.

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IL LATO UMANO
Un lavoro immane, tra farmaci e logistica, i turni a nastro di 24 ore. «Siamo in camice bianco con i cartellini di riconoscimento. I pazienti ci riconoscono solo dal timbro di voce. Quelli che sono in isolamento da tanto hanno problemi di burn out, una sindrome di esaurimento quando fai in maniera continuata e totalizzante la stessa cosa. Le tute limitano molto l'empatia. Il lato umano è stato abolito, la spontaneità azzerata», racconta. Il lato umano soccombe. «I virus da quel che vediamo ora è meno virulento, sarà tra di noi ancora per molto tempo. I reparti Covid non verranno chiusi», dice consapevole di un paradosso: la normalità di una missione all'estero è ancora lontana. Ricordi in mezzo alla trincea? Tanti, «uno dei primi pazienti che abbiamo dimesso, ricordo cosa ho provato quando lo abbiamo portato a sentire di nuovo l'aria fresca, fuori, sulla pelle». Quando smette camice e divisa anche lui cerca di riannodare i fili con il tessuto quotidiano: «Faccio la spesa al supermercato, ho riletto L'avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, Sciascia». Poi ricomincia un'altra giornata: parafrasando Paolo Conte, di aeronautico gli è rimasto solo il cielo. Il colonnello sparisce dentro alla tuta protettiva e sa che il suo elemento ora è la terra che lo riporta con gravità dentro all'ospedale del Celio. Guarda in su, niente aerei ancora ma le ringhiere delle abitazioni del Celio con gli striscioni appesi. C'è scritto Grazie.

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