«Bisogna trovare un polacco, un rumeno, uno zingaro a cui regalare 500 o 1000 euro a cui intestare sia le quote sociali e le cose e le mura della società». Così, intercettato dalla Dia, parlava Vincenzo Alvaro, ritenuto dai magistrati della Dda di Roma insieme ad Antonio Carzio, al vertice della “filiale” della ‘Ndrangheta nella Capitale. E svelava quale fosse il trucco per aggirare la minaccia incombente delle misure di prevenzione e dei sequestri: trovare prestanome. Cedere le società e continuare a gestirle. Anche far finta di fallire.
LA PRESCRIZIONE
Contavano sulla prescrizione gli indagati e sul fatto che, per intestazione fittizia di beni, non si viene arrestati: «Poi tutte queste cose che dicono e ti attaccano sono tutte minchiate - continua Alvaro - io ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo e ho la bancarotta fraudolenta, mi hanno dato tipo vari articolo 7 (aggravante mafiosa ndr) e poi mi hanno arrestato, mi hanno condannato e ancora devo fare appello, vedi tu, è andato in prescrizione, le prescrizioni vanno al doppio dette cose».
BRUCIO IL LOCALE
A finire in manette su richiesta degli aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò è anche Carmela Alvaro, “boss” in gonnella, figlia di Vincenzo Alvaro, che insieme a Besim Letniku, suo impiegato, minacciava i fiduciari dell’amministratore giudiziario dopo gli arresti e i sequestri dello scorso maggio.
PASTINA PER TUTTI
Ma i locali non servivano soltanto per riciclare il denaro. Erano necessari anche per dar lavoro agli affiliati, tornati in libertà che avrebbero consentito di mantenere il controllo delle attività economiche. Così Giuseppe Penna, uno deglòi arrestati, intercettato, dice a Domenico Alvaro: «Mi piace l’amicizia che è così...e non sono andato da tutti i forestieri, sto aspettando...perché se la cosa è positiva e questa è positiva, che come sono messe le situazioni qua c’è un poco di pastina per tutti. I carcerati ringraziando a dio...se riusciamo a farli entrare qua li manteniamo piano piano».