Via Poma, i giudici: «Simonetta
ha detto no, Busco l'ha uccisa»

Raniero Busco
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Martedì 26 Aprile 2011, 18:33 - Ultimo aggiornamento: 26 Maggio, 22:30
ROMA - certo che la ragazza ebbe ad aprire a una persona che conosceva e con la quale si stava accingendo ad avere un rapporto sessuale pienamente consenziente tanto che si era regolarmente spogliata. Questa persona non poteva che essere Raniero Busco dal momento che non si era rinvenuta traccia di altre possibili storie con altri uomini». È quanto affermano i giudici della III Corte d'Assise di Roma nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con la quale hanno condannato a 24 anni di reclusione l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, con l'accusa di omicidio volontario per l'uccisione della ragazza avvenuta il 7 agosto del 1990 in via Poma.



Nel documento di 139 pagine i giudici ricostruiscono quanto avvenne a via Poma. «La Corte ritiene che sia di tutta evidenza che durante i preliminari di un approccio sessuale consenziente, la ragazza, ad un certo punto, per motivi riconducibili allo stato di tensione esistente tra i due, inaspettatamente si è rifiutata di proseguire il rapporto. Il rifiuto probabilmente accompagnato da parole sferzanti ha indotto l'assassino, come reazione a infliggerle un terribile morso al capezzolo», scrivono ancora i giudici. Nel ricostruire la dinamica, la Corte spiega: «La reazione della ragazza anche solo verbale, a tale gesto, ha provocato l'ulteriore incremento della spinta aggressiva per cui il Busco l'ha dapprima atterrata e tramortita con un potente schiaffone all'emivolto e poi, scatenatasi ormai la violenza, colto da un'irrefrenabile furia omicida, le ha inferto 29 coltellate mentre la ragazza già si trovava stesa a terra supina e senza che potesse opporre una sia pur minima resistenza dato che il Busco si era posizionato a cavalcioni sopra di lei, come attestato dalle evidenti tumefazioni rilevabili sul bacino della giovane». I giudici affermano poi che Busco ha infierito «con l'arma anche nella vagina della giovane».



«La gravità del delitto per cui si procede è dimostrazione di un' indole violenta, nè vi è stato alcun concreto segno di ravvedimentò». È un altro passo delle motivazioni della sentenza. In merito al profilo psicologico dell'uomo, i giudici scrivono che «sussiste l'aggravante di aver agito con crudeltà verso le persone in considerazione dell'elevato numero di colpi inferti alla vittima e, soprattutto, dei sei colpi inferti nella zona degli occhi e dei quattro nella zona dei genitali interni». La condotta criminale di Busco è «caratterizzata dalla volontà di infliggere un patimento ulteriore rispetto alle ordinarie modalità esecutive del reato e rivelano una particolare malvagità dell'agente»



Secondo i giudici della III Corte d'assise è stata poi «raggiunta la piena prova della responsabilità di Raniero Busco». Una «piena responsabilità» a cui i giudici arrivano elencando una serie di elementi: «Presenza del dna di Busco sul corpetto e sul reggiseno, in misura maggiore in corrispondenza del capezzolo sinistro della vittima - si legge nelle 139 pagine della sentenza - assenza di dna di altre persone tranne che della vittima; contestualità tra il morso al capezzolo sinistro e l'azione omicidiaria; appartenenza al Busco dell'impronta del morso». Ciò a fronte degli elementi portati dalla difesa dell'imputato che, a giudizio della Corte, «non reggono ad un serio vaglio critico».



Nessun dubbio sul fatto che le tracce biologiche rinvenute sugli indumenti della ragazza siano state lasciate al momento del delitto, «del resto, quand'anche per assurdo si volesse ipotizzare che a mordere il seno di Simonetta, e dunque ad ucciderla, fosse stata un'altra persona, questa avrebbe dovuto necessariamente rilasciare il proprio dna sul reggiseno e sul corpetto della ragazza, ciò che non è avvenuto in quanto sugli indumenti sono stati ritrovati soltanto ed esclusivamente materiali biologici appartenenti in grande quantità alla vittima e in parte ridottissima al Busco. E' certo infatti - scrivono i giudici - che stanti le modalità dell'omicidio l'assassino non avrebbe potuto non rilasciare il suo dna sugli indumenti della vittima».



Il morso sul seno della Cesaroni è «un elemento probatorio di assoluta rilevanza» e la sua «contemporaneità con l'aggressione della giovane trova oggettivo e indubbio riscontro in quella sorta di graffio arrecato con il tagliacarte che l'assassino ha per 29 volte affondato sul corpo della ragazza e che presenta una crosticina sieroematica dalle stesse caratteristiche di quella rilevata sul capezzolo sinistro», insistono i giudici. Per quanto concerne poi l'ora del delitto, sulla scorta degli elementi raccolti dalle indagini, «può fondatamente ritenersi che l'orario della morte vada a collocarsi dopo le 17.15-17.30 e prima delle 18-18.30».



Busco tra le «16 e le 19,45» del 7 agosto del 1990 «deve ritenersi privo di alibi». È quanto si legge ancora nelle motivazioni della sentenza. Nel provvedimento la Corte afferma che tutte le giustificazioni formulate dall'uomo si sono rilevate prive di fondamento. Busco ha cambiato negli anni versioni e orari, sostenendo di essere in luoghi diversi il giorno dell'omicidio: nel garage di casa fino alle 18 («alibi-officina») e poi «al bar Portici». Secondo quanto si legge «non solo Busco ha contribuito alla preordinazione dei proprio falsi alibi ma in precedenza aveva cercato di indirizzare i sospetti contro alcuni suoi amici della comitiva Bar Portici» e in particolare Simone Palombi.



Nelle motivazioni i giudici, inoltre, scrivono che «desta più di una perplessità la completa mancanza di ricordo da parte del Busco in ordine agli avvenimento di quel pomeriggio se la si confronta (a parte la prodigiosa memoria delle tre amiche della madre di Busco, che devono però ricorrere ad associazioni funambolesche per giustificarla), alla vivezza con cui gli eventi del 7 agosto sono rimasti scolpiti nella mente della madre e della sorella di Simonetta o, semplicemente in quella di Volponi». Per i giudici «è indubbiamente molto anomalo, pur dando per scontato che Busco fosse il meno coinvolto tra i due nella relazione amorosa, che i fatti di una giornata così particolare, in cui si era consumata la barbara e misteriosa uccisione della sua fidanzata ed in cui lui era stato prelevato da una volante della polizia in piena notte e poi trattenuto in questura, fossero caduti nell'oblio insieme a quelli di tanti altri giorni uguali uno all'altro».



Nel provvedimento i giudici descrivono la Cesaroni come «una ragazza "pulita" che si sentiva "sporcata" proprio dal rapporto con il fidanzato, dal quale tuttavia non riusciva a liberarsi». Le «reali intenzioni» di Busco verso la Cesaroni, secondo la Corte, erano chiare. «L'aveva lasciata già una volta, frequentava contemporaneamente altre ragazze, la trattava male, anche davanti agli altri, si accingeva ad andare in vacanza con gli amici e senza di lei e, come chiaramente riferito dalla ragazza (in una lettera, ndr), da lei voleva "sesso, solo sesso" e le faceva vivere il loro rapporto "nel modo più indegno e sporco". Orbene, questa relazione la vedeva del tutto soccombente: ella infatti non riusciva a venirne fuori (tanto che si era fatta prescrivere la pillola anticoncezionale) e di ciò si colpevolizzava: "quante volte mi sono alzata la mattina, convinta che l'avrei fatta subito finita, ma una volta davanti a lui, non ne ho la forza"».


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