Roma, il caso delle sorelle rom arse vive: Seferovic potrebbe salvarsi

Roma, il caso delle sorelle rom arse vive: Seferovic potrebbe salvarsi
di Adelaide Pierucci
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Domenica 22 Luglio 2018, 13:49 - Ultimo aggiornamento: 23 Luglio, 08:40
Stesse frasi, traduzioni opposte. Scontro tra perizie nell'inchiesta sull'omicidio di Angelica Elisabeth e Francesca Halilovic 4, 8 e 20 anni, le tre sorelle rom arse vive nel maggio 2017 nella roulotte di famiglia, parcheggiata al Collatino. L'unico imputato a processo, Serif Seferovic - il rom bosniaco di etnia Khorakhanè accusato del triplice omicidio premeditato perché avrebbe lanciato una molotov contro la roulotte - potrebbe beneficiare dei dubbi di traduzione del perito nominato dalla Corte di Assise. Dubbi che, se confermati, potrebbero portarlo dritto verso l'assoluzione e permettergli di lasciare immediatamente il carcere dal momento che verrebbero meno le urgenze cautelari.

Una sfilza di intercettazioni cruciali per l'accusa infatti sarebbero state tradotte in maniera diversa o non tradotte, perché ritenute non ascoltabili, quando a valutarle è stato il perito del tribunale. Il pm Alessia Miele «per chiarire le lacune» ha chiesto ora ai giudici di convocare in aula il perito da loro nominato affinché spieghi il metodo di lavoro.

I COLLOQUI
L'inchiesta, infatti, si basa sulle chiacchiere telefoniche e ambientali dei numerosi membri della famiglia Seferovic che, subito dopo l'attentato, collocherebbero Serif sul posto, pronto a lanciare le molotov spalleggiato dal fratello minore Jonson, il maggiore Renato (rifugiati all'estero) e la moglie di quest'ultimo Nina appena condannata a 20 anni con l'accusa di aver confezionato le bottiglie incendiarie. «Lui era solo alla guida del furgone», cerca di sviare qualcuno, nella conversazione ritenuta centrale. Per Renato, invece, consigliano una plastica facciale per evitare il riconoscimento. Parla anche il più piccolo di famiglia, 6 anni, e vista l'età a sproposito: «Voi le avete bruciate...».

Secondo la procura quella notte sul furgone dei Seferovic c'erano i tre fratelli e la cognata e cercavano gli Halilovic. Romano, il capofamiglia andava punito, perché qualche giorno prima si sarebbe permesso di rifiutare un accordo economico ed avrebbe preso a schiaffi Renato davanti a Nina. I Seferovic, la sera stessa avrebbero reagito dando fuoco al suo furgone. Ma nonostante fosse stato bruciato il mezzo, bidoni e auto parcheggiate, l'azione non sarebbe stata considerata abbastanza esemplare. L'attentato così sarebbe stato riproposto 5 giorni dopo, con il lancio delle molotov che hanno ucciso le tre sorelle, al piano superiore del camper. Nina Vicola è stata condannata anche per il primo incendio. In quel caso avrebbe confezionato le bottiglie con la benzina lanciate, secondo l'accusa dal cognato Andrea Seferovic, 18 anni, che, come gli altri fratelli assistito dall'avvocato Gianluca Nicolini, a giugno, ha patteggiato una pena a due anni e mezzo e l'immediata scarcerazione. Il movente dell'astio sarebbe da collegare ai ripetuti taglieggiamenti che Romano Halilovic avrebbe imposto nel campo di via Salviati.
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