Roma, un ragazzo di Tor Sapienza scrive alla Raggi: «Qui è un inferno»

Roma, un ragazzo di Tor Sapienza scrive alla Raggi: «Qui è un inferno»
di Raffaella Troili
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Venerdì 16 Dicembre 2016, 07:58 - Ultimo aggiornamento: 17 Dicembre, 09:10

Sopra il tramonto a Tor Sapienza incombe una nube scura. Non sono giochi di storni, sono fumi di roghi, grigi e pesanti, come il senso di paura che Simone David prova ogni santo giorno quando fa buio. L'ha scritto alla sindaca Virginia Raggi: «Non vogliamo perdere le speranze, vogliamo continuare a credere nel nostro piccolo quartiere che, a tratti, si trasforma in un inferno».

A 18 anni non ti guardi le spalle, non pensi di incontrare il male, non fai strade alternative per tornare a casa, non resti sempre in gruppo, non eviti di stare all'aperto. Non usi accorgimenti. Invece alle «sei tocca tornà a casa, non sei sicuro, mamma sta sempre a ripetere stai attento e fatti accompagnare ma non è apprensiva. E' che non c'è sicurezza». Il piccolo saggio di Tor Sapienza ha scritto una meravigliosa lettera alla Raggi («l'ho mandata a voi sennò non mi filava»).

«VOGLIAMO POTERCI FIDARE»
Racconta di «questo inferno che viene e va, noi ci perdiamo dentro. Non si può avere paura della propria casa; di quelle strade che ci hanno cresciuto che diventano d'un tratto nere. Soprattutto di notte. La paura è il nostro inferno». C'è qualcosa che non va sindaca: a 18 anni si è intrepidi, irresponsabili. Invece negli occhi di Simone se la battono leggerezza e responsabilità, del resto c'è l'amico aggredito dai rom per un telefonino, la malavita nei palazzoni, gli stabili occupati in via Collatina, il campo di via Salviati che tutti evitano. Un percorso a ostacoli, costeggiato di rifiuti, odore acre di mondezza e fumi.

«Non vogliamo aver paura delle persone che ci sono accanto - l'appello di Simone - Persone che all'improvviso, potrebbero diventare mostri. Vogliamo poterci fidare, continuo a sperare che ci sia qualcosa di buono in quella gente, ma questa speranza svanisce. I primi a essere colpiti sono quelle persone che non conosci; non sei nel loro inferno. Ora viene colpito uno dei tuoi migliori amici e allora ti rendi conto che è reale. Ma continui a sperare. Continuano scippi, violenze ma continui a sperare». Poi succede che Yao Zhang sia scippata fuori alla Questura, davanti al campo rom, travolta da un treno. «E' il turno della tv, ti dà il colpo di grazia. Pensi: si avrà una svolta, ora lo sanno tutti. Ma poi si torna nel dimenticatoio, nell'inferno. Non lo voglio più. Non voglio aver paura di uscire con gli amici, di andare a prendere un caffè. Non voglio aver paura per mia madre; di ritrovarmi nell'inferno».

«SIAMO SOLI, CERCHIAMO AIUTO»
«Voglio cambiare tutto questo, senza cambiare le mie strade. Voglio che mia madre sia tranquilla, che lo sia mio padre, i miei parenti. Vedo il respiro del fuoco ogni mattina sulla mia testa. Quel respiro maligno che infetta mente e corpo, il mio, quello di tutti noi che cerchiamo di rendere le nostre strade migliori. Ma siamo soli nel nostro inferno. L'aiuto può arrivare da chi ha il potere». Simone ti fissa e rende l'idea: «Perché per proteggerci dobbiamo stare in chiesa o nei fast food?». L'aria si fa irrespirabile. Alla fermata dov'erano i fiori di Yao, un tavernello, una birra.

Il mazzo l'ha appena preso un uomo di colore poco lucido: «Lo porto sul Tevere, dove un papà ha gettato il figlio». Era il 2011 ma anche nei suoi occhi si scorge inferno. Dal campo continuano a gettare rifiuti. Sono le sei, Simone va a casa. «Sono un ragazzo che vuole continuare a sperare nel paradiso o perlomeno nel purgatorio». Oggi sarà in classe, V anno, tecnico industriale Giorgi. «Mi sa che mi sono sbagliato però, mi piacciono le Lettere».